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Africa: la diaspora dei Saharawi e il sapore amaro del tè
Dal 1975, con l’occupazione da parte del Marocco, circa la metà della popolazione del Sahara Occidentale è stata costretta a fuggire nel vicino deserto algerino. E qui vive tuttora in campi profughi. Il racconto di Ahmed Salama Bechri.
L’ospitalità è sacra tra i Saharawi, il popolo che da quasi 50 anni vive nelle tende dei campi profughi nel deserto algerino, e i cui giovani non hanno mai visto la loro terra d’origine: il Sahara Occidentale.
Il rito del tè. Chi viene accolto in una casa saharawi assiste al rito del tè, che qui si sviluppa in tre fasi: “Il primo bicchiere – racconta Tumanna, una giovane Saharawi che vive da anni in Italia, dove ormai ha il suo lavoro e la sua famiglia – è molto amaro: predomina su tutto il resto il forte sapore delle foglie. Nel secondo bicchiere viene a galla il dolce dello zucchero, ben miscelato con il gusto della bevanda. Il terzo, ottenuto con le foglie di tè ormai dilavate due volte, ha quasi soltanto un sapore zuccheroso”. Una tradizione saharawi racconta che in un lontano passato arrivò nel Sahara Occidentale un poeta francese che descrisse così i tre bicchieri del rito del tè: il primo amaro come la vita, il secondo dolce come l’amore, il terzo soave come la morte.
Lotta e autodeterminazione. Ma immergendosi nella realtà saharawi (raccontata nel numero di gennaio di Popoli e Missione), i tre bicchieri di tè, con gli altrettanti sapori così distinti, possono essere paragonati non solo alla vita, all’amore e alla morte, come la tradizione racconta. Tenendo conto della storia recente e dell’attualità, i tre sapori richiamano anche l’amarezza della lotta, la dolcezza dell’agognata autodeterminazione e la soavità di poter rimettere (o, per molti, mettere) piede nella propria terra. Per comprendere cosa significano, per i Saharawi, lotta, autodeterminazione e ritorno, occorre conoscere la storia di questo popolo e scoprire perché dal 1975 viene considerato straniero a casa sua o addirittura impossibilitato a rientrare nella propria terra.
L’invasione dei colonizzatori. Il Sahara Occidentale, vasta regione desertica tra Marocco e Mauritania, ricchissima di miniere di fosfati e dal mare molto pescoso, era una colonia spagnola che, con il processo di decolonizzazione dell’Africa, cominciò a rivendicare l’indipendenza. Sin dal 1973 la sua popolazione si organizza in un movimento per la liberazione del Sahara Occidentale, conosciuto con il nome di Polisario, la cui denominazione completa è Fronte di liberazione popolare di Saguia el Hamra e del Río de Oro (che sono le due regioni del Sahara Occidentale). Le prime manifestazioni sono pacifiche, poi con il tempo si trasformano in lotta armata. Nel 1975 la Spagna, sotto pressione delle Nazioni Unite e degli altri Stati africani, accetta di ritirarsi dal Sahara Occidentale con la promessa di supportare i Saharawi nel loro processo d’indipendenza. Invece firma l’Accordo di Madrid con Marocco e Mauritania che permette ai due Stati confinanti di spartirsi il Sahara Occidentale, e garantisce alla Spagna di difendere i suoi interessi nell’area. Sebbene la Corte internazionale di giustizia dell’Aja neghi il diritto a questi due Stati africani di rivendicare la loro sovranità sul Sahara Occidentale, entrambi scelgono di agire ignorando la decisione e il Marocco invita la sua popolazione a trasferirsi in massa nella regione, permettendo così a 300mila coloni di stabilirsi lì.
Villaggi di tende. Contemporaneamente il Fronte Polisario, sostenuto dall’Algeria, inasprisce la lotta per l’indipendenza del Sahara Occidentale e quasi la metà della popolazione saharawi, trovandosi in mezzo ad una guerra, è costretta a fuggire rifugiandosi nel confinante deserto algerino. Qui, da allora, si trovano ancora i campi profughi saharawi: villaggi di tende e poco altro, dove l’elettricità è arrivata da soli cinque anni. Nel 1979 la Mauritania riconosce la sovranità della Repubblica araba democratica dei Sahrawi, ovvero del Sahara Occidentale, e raggiunge l’obiettivo della pace. Il Marocco, invece, prosegue nell’occupazione della parte costiera, dividendo la regione in due, da Nord a Sud. Nel 1982 inizia a costruire un muro tra la costa e il deserto, la cui edificazione finisce negli anni Novanta: è una barriera invalicabile, a tratti in cemento, a tratti in filo spinato, a tratti disseminata da mine antiuomo. L’obiettivo del Marocco, con l’edificazione di questo muro, è quello di contrastare la guerriglia del movimento di liberazione Saharawi che non ha risorse umane, militari ed economiche per combattere una vera e propria guerra. L’azione del Fronte Polisario è una lotta amara, per rivendicare l’indipendenza della propria terra.
Il sogno del ritorno. Il conflitto con il Marocco dura fino al 1991, anno in cui le Nazioni Unite intervengono mettendo sul tavolo delle due parti (Marocco e Fronte Polisario) un piano che prevede il cessate il fuoco e l’organizzazione di un referendum con il quale i Saharawi avrebbero dovuto votare per scegliere tra l’autodeterminazione (completando quel processo di decolonizzazione che era rimasto sospeso) e la sovranità del Marocco. A commentare questi ultimi decenni di storia è Ahmed Salama Bechri, un “rappresentante della diaspora saharawi”, come si definisce lui stesso, che ha 34 anni, vive in provincia di Pisa da quando ne aveva 11, e non ha mai potuto mettere piede nella sua terra. Molto spesso, però, va a trovare la sua famiglia nella regione algerina di Tindouf, nei campi profughi, dove è nato e ha trascorso la sua infanzia.
Vita in esilio. Ahmed è arrivato in Toscana nel 2000 con il progetto “Accoglienza dei piccoli ambasciatori di pace” sostenuto da associazioni di volontariato: l’obiettivo è quello di permettere ai bambini saharawi di trascorrere un’estate in Italia, per dare loro la possibilità di vedere che esiste un mondo al di fuori delle tendopoli nel deserto e per farli accedere a cure mediche. Fu proprio con una semplice misurazione della pressione arteriosa, che fino a quel momento nessuno aveva mai provato ad Ahmed, che gli fu scoperto un grave problema renale. Così “mentre i miei compagni a fine estate ripartirono per il Tindouf, io rimasi ospite di una famiglia per tutte le cure necessarie”, racconta il giovane. Poi Ahmed è stato definitivamente accolto in Italia, dove ha studiato fino alla laurea. Oggi parla arabo, italiano, inglese, spagnolo e lavora nel settore della protezione internazionale per i rifugiati con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).
Gli interessi del Marocco. “Dal 1991 ad oggi il referendum per l’autodeterminazione non ci è stato ancora concesso – commenta Ahmed – perché il Marocco chiede di voler inserire tra i votanti anche i coloni che vivono nel Sahara Occidentale occupato. Proposta che le autorità saharawi non accettano. C’è da sapere che nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il Marocco è sostenuto in particolar modo da Francia e Stati Uniti”, sebbene questi ultimi si siano impegnati in vari modi per la risoluzione del conflitto. “Gli interessi del Marocco sono quelli di mantenere lo status quo per poter continuare a sfruttare le risorse naturali, rimandando il referendum a data da destinarsi. Inoltre sta cercando di convincere più Stati possibili a riconoscere la sua sovranità sulla regione del Sahara Occidentale. Per il momento ci è riuscito con Usa e Israele. Noi saharawi chiediamo solo di poter decidere del nostro destino”.
Nessuna soluzione in vista. In oltre 30 anni in cui le Nazioni Unite seguono la “questione Saharawi”, si sono succeduti molti inviati speciali Onu, ma nessuno è riuscito ad arrivare ad una soluzione. Lo scorso ottobre il Consiglio di sicurezza ha adottato la risoluzione 2703 per rinnovare il mandato della Missione Onu per il Referendum nel Sahara Occidentale (Minurso) per un ulteriore anno. Ma quest’ennesima risoluzione continua ad avere il sapore amaro del primo bicchiere di tè, seppure anche solo l’idea dell’autodeterminazione richiami la dolcezza del secondo. Invece la soavità del ritorno nella propria terra è ben lontana dall’essere concreta. Nel frattempo, però, Ahmed, Tumanna e gli altri della diaspora saharawi, non si danno per vinti e s’impegnano perché la causa di questo popolo dimenticato torni alla ribalta della cronaca.