Opinioni & Commenti
Afghanistan, un’anatra zoppa
di Romanello Cantini
Alla fine portare gli afghani a votare con il rischio di saltare in aria o di rimanere con un dito in meno per decidere se il presidente del Paese deve essere Hamid Karzai oppure Karzai Hamid è apparso un esercizio assurdo perfino allo stesso Karzai, che pure ha insistito fino all’ultimo perché il ballottaggio in Afghanistan si facesse. Karzai voleva che, con la celebrazione del ballottaggio, la sua rielezione apparisse più legittima. Tuttavia, sarebbe stata comunque una vittoria buffa in cui arrivava primo perché non c’erano altri concorrenti dopo che Abdullah Abdullah, lo sfidante al primo turno dello scorso 20 agosto, ha gettato la spugna.
È noto che anche in un Paese normale gli elettori che votano al secondo turno sono molti meno di quelli che partecipano al primo round elettorale. In Afghanistan già alle elezioni di agosto era andato a votare il 40% di chi aveva diritto. Nei due mesi successivi si è dovuto faticosamente scoprire che dei 4 milioni di voti espressi 1 su 4 era il risultato di un broglio. È facile immaginare che gli afghani, dopo una prima prova così macchiata dalle irregolarità, non avrebbero fatto file tanto lunghe per partecipare alla seconda edizione di una gara con un favorito a cui, anche dopo il riconteggio dei voti, mancava meno di mezzo punto per arrivare ad un 50% già scontato. Alla fine Karzai doveva scegliere fra una vittoria senza elezione e una vittoria senza elettori.
Abdullah ha dichiarato di non voler partecipare al ballottaggio perché Karzai non ha voluto cambiare la commissione elettorale che era in carica alle elezioni di agosto. Simili stoccate dimostrano che, nonostante la situazione drammatica del Paese, i responsabili politici che dovrebbero opporsi ai talebani impiegano più livore a combattersi fra loro che responsabilità nel comportamento di fronte a coloro che dovrebbero essere i loro nemici. Se Abdullah avesse partecipato al ballottaggio avrebbe potuto accusare Karzai solo di essere stato scelto da pochi elettori. Rifiutando invece di correre perché, secondo lui, le regole erano ancora truccate, ha accusato implicitamente Karzai di diventare presidente con le truffe e ha puntato a minarne anche quel poco di autorità e di rappresentatività che gli rimane. La parabola discendente delle elezioni afgane che, fra trucchi e faide, arriva al risultato di lasciare di fatto sulla scheda un solo nome come nella più classica delle dittature tanto che, secondo lo stesso copione, alla fine si rinuncia alle elezioni stesse, non è un risultato che può consolare chi almeno all’inizio era partito per l’Afghanistan mettendo in valigia la democrazia. D’altra parte, Karzai diventa sempre più il problema anziché la soluzione anche per chi, a cominciare dall’amministrazione americana, cerca ancora un’uscita positiva ad una guerra che si sta sempre più avvitando su se stessa.
Nonostante tutto, l’Afghanistan si dovrà tenere almeno per ora un presidente che esce come un’anatra zoppa da un’elezione torbida e troncata a metà. E se il presidente rieletto si porta dietro l’ombra della corruzione elettorale, la sua numerosa famiglia ha intorno a sé una fama ancora più ambigua, a cominciare dai tre fratelli del presidente, di cui uno è stato accusato dal “New York Times” di essere addirittura coinvolto nel grande traffico di eroina del Paese.
Nel frattempo, la sfida dei talebani si fa sempre più violenta. Una settimana fa c’è stato, nel pieno centro di Kabul, l’attentato più micidiale finora condotto contro civili stranieri, con l’uccisione di 6 funzionari dell’Onu. E l’ottobre appena trascorso è stato il mese più sanguinoso per le truppe americane dall’inizio della guerra, con 53 soldati caduti, che portano a 445 il numero dei militari stranieri morti in 8 anni.