Opinioni & Commenti

Afghanistan, un paese a pezzi

di Romanello Cantini

Le elezioni afgane sono quelle elezioni ormai tipiche di tanti paesi con una democrazia balbettante i cui risultati provvisori sono sempre inventati e i cui risultati definitivi precisi non arrivano mai. Tuttavia a mano a mano che passano i giorni e il quadro dei risultati appare meno confuso bisogna cominciare a fare lo sconto alle cifre più rosee diffuse a caldo nelle prime ore dopo le elezioni.

Probabilmente l’affluenza reale alle urne non si discosta da un quaranta per cento contro il settanta per cento di partecipazione alle elezioni di cinque anni fa. E se, come sembra, il vincitore già al primo turno sarà ancora il vecchio Karzai, nonostante le accuse di corruzione verso il suo governo e la freddezza verso il personaggio da parte del nuovo presidente americano, vuol dire che con lui ha vinto l’etnia maggioritaria pashtun secondo una logica in cui la famiglia vota secondo gli ordini del capofamiglia e il capofamiglia secondo gli ordini del capotribù per cui alla fine le elezioni sembrano più un censimento delle nazionalità che il quadro delle opinioni dei cittadini.

E tuttavia, pur con queste premesse che dimostrano come sia difficile introdurre una democrazia di tipo occidentale basata sull’individualismo in una cultura fondata su vincoli comunitari, rimane il fatto importante che quasi metà della popolazione ha messo in conto anche la propria incolumità fisica di fronte alle minacce più odiose per dire no ai talebani e per dire sì a Tizio e a Caio anche se non alla democrazia come noi la concepiamo e la pratichiamo.

Da questo lato è significativo notare che le donne afgane che otto anni fa non potevano uscire di casa e che attualmente possono andare a scuola e a lavorare nella misura di una su tre hanno potuto candidarsi in numero di due nelle elezioni presidenziali e in circa trecento nelle elezioni provinciali anche se il parlamento ha di recente ribadito l’autorità del marito sulla moglie e il burqa, anche se non è più obbligatorio, continua tuttavia ad essere di gran moda e non solo nelle zone interne del paese.

E tuttavia a conti fatti impressiona il dato che non sono le elezioni a pesare sulle sorti della guerra, come vogliono pensare i più ottimisti, ma è invece ormai la guerra a pesare sulle elezioni. Nel Pakistan del Sud e in parte in quello dell’Est controllati dai talebani sembra che l’affluenza ai seggi non abbia raggiunto nemmeno il dieci per cento ed è ormai un paese di fatto con una sovranità limitata sul suo territorio l’ Afghanistan che esce dal settimo anno di guerra contro i talebani e da una guerra di trenta anni in generale.

Sette anni di guerra sono pari ai sette anni di guerra dell’America in Vietnam con il risultato che sappiamo. Quasi centomila soldati Nato impegnati attualmente in Afghanistan sono vicini ai centoventimila soldati russi presenti nel paese venti anni fa con un altro risultato che sappiamo. In realtà le esigenze di sicurezza estremamente deteriorate incidono non solo sulle prove di una democrazia ormai praticata a pezze in un paese a pezzi , ma anche sul tentativo di dialogo cercato con la popolazione dopo la svolta di Obama e sul bisogno sempre più proclamato di ricostruzione del paese.

Fra il soldato americano bardato come un cosmonauta e l’afgano con il suo turbante c’è un abisso come ci deve essere una distanza di sicurezza fra un blindato e ogni auto civile. Nonostante le scuole, le strade e i ponti costruiti è impossibile ricostruire un paese se ogni operaio ha bisogno di una guardia del corpo ed ogni strada può essere una trappola piena di quelle mine, su cui continuano a rimbalzare anche i Lince italiani senza per ora subire vittime, con un paese dove i disoccupati sono il 40 per cento, gli analfabeti il 70 per cento e la produzione di oppio rappresenta ormai il 90 per cento della produzione mondiale.