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Afghanistan, la democrazia ha bisogno di sviluppo

di ROMANELLO CANTINISe si ammette che i quindici morti nel giorno delle elezioni rientrano in fondo nella ordinarietà del quotidiano, allora si può dire che le elezioni di domenica scorsa in Afghanistan si sono svolte in un clima quasi tranquillo. È certo che i talebani che avevano invitato a boicottarle non hanno avuto successo, visto che la partecipazione, anche se inferiore alle elezioni presidenziali dell’ottobre scorso, sembra abbia superato il 50% degli aventi diritto. Seppure a tappe rallentate il processo di formazione di uno Stato democratico in Afghanistan sembra procedere, soprattutto, negli aspetti formali: eleggere istituzioni come il presidente della Repubblica o il Parlamento, senza domandarsi troppo, se poi questi organismi riusciranno veramente a rappresentare uno Stato di diritto e a rispondere agli interessi più urgenti e profondi della popolazione.

Il presidente Karzai, eletto nell’autunno scorso, è un uomo rispettabile soprattutto per la sua estraneità alle guerre civili del passato e per la sua capacità di compromesso e di mediazione. E, tuttavia, proprio questa sua attitudine titubante e accomodante lo rende più capace di regnare che di governare. Come un re feudale, la sua autorità spesso non esce al di fuori del suo palazzo e della capitale, mentre di fatto nelle province, in particolare quelle del Nord e del NordEst, vige ancora l’arbitrio dei vecchi signori della guerra con la loro autorità tribale e le proprie milizie solo in parte e apparentemente disarmate.

Le lezioni per il Parlamento hanno messo in lizza quasi 6mila candidati senza nessun legame di partito e senza nessun programma. La campagna elettorale si è svolta soltanto in alcuni spazi televisivi e in alcuni incontri privati. Le grandi manifestazioni pubbliche, fuori della capitale e soprattutto nel Sud del Paese, sono state evitate per paura di attentati che, nonostante tutto, sono riusciti a uccidere 7 candidati. In questo clima è evidente che l’elettore, che al seggio si è visto presentare una sorta di rubrica telefonica di centinaia di nomi di candidati, ha scelto soprattutto i nomi raccomandati dalla tribù e i potenti più vicini. Poiché, in queste elezioni, hanno contato soprattutto il potere personale e la disponibilità di denaro, è possibile che fra gli eletti ci siano anche signori della guerra, trafficanti di droga e, perfino, criminali solo in parte depennati dalle liste elettorali.Proprio per la mancanza di legami partitici e programmatici nel futuro Parlamento, le maggioranze dovranno essere raccattate con quell’appello ai singoli che più è soggetto alla corruzione del favore personale. Sarà questa la più temibile sfida che il prossimo governo dovrà affrontare. A questo punto l’Afghanistan non manca né di Costituzione né di leggi. È privo soprattutto di una amministrazione della giustizia credibile ed efficiente nei confronti dei poteri forti locali e di una amministrazione pubblica non inquinata dalla corruzione.

È questa scommessa che si dovrà vincere perché i primi passi verso la democrazia non sono accompagnati da passi decisivi verso lo sviluppo. In Afghanistan – è vero – le donne non sono più murate in casa e i cristiani non sono più messi in prigione. Non sono più vietate mille cose: dai televisori agli aquiloni… Oltre 3 milioni di profughi sono ritornati in patria dopo 25 anni di guerra.

Ma il Paese è ora al penultimo posto per i suoi indici di povertà. Distrutta la sua economia tradizionale, dalla transumanza alla irrigazione in un Paese arido, inesistente l’industria per la insicurezza generale, l’Afghanistan sopravvive per due sole risorse, una umiliante e una vergognosa: i 2 miliardi di dollari di aiuto americano all’anno e il primato, questo sì mondiale, nella produzione dell’oppio.