Opinioni & Commenti

Afghanistan, interrogativi e rischi di una guerra

di Romanello Cantini

In Afghanistan in otto anni di guerra sono morti 1386 soldati occidentali. Finora il contingente italiano era quello che meno aveva pagato il prezzo in termini di vittime. C’erano già stati i nostri caduti ma colpiti uno alla volta. Ora invece è arrivata anche per noi la strage.

Gli italiani non sono risparmiati né in virtù della loro opera in favore delle popolazioni locali con i loro ospedali e le loro scuole, né in virtù dei misteriosissimi «caveat» che dovrebbero limitare il loro impegno e i loro rischi in combattimento. L’angoscia dei morti si avverte in particolar modo quando chi muore seppure a decine di migliaia di chilometri di distanza parla come noi. In questo caso tutti e sei i caduti erano di stanza in Toscana: a Siena, Pistoia e Livorno. Tre di loro abitavano addirittura nella nostra regione: il caporal maggiore Massimiliano Randino a Sesto Fiorentino, il tenente Antonio Fortunato e il caporal maggiore Matteo Mureddu nel senese. Possiamo immaginarli facilmente con il contorno dei loro paesi alle spalle. In poche ore potremmo andare a trovare le loro case. Per questo la loro morte, come tutte le cose che possiamo vedere materialmente con il vuoto e il lutto portato in quel posto che ci è familiare, è più «vera» e più «presente».

Tuttavia proprio per questo l’indomani di una catastrofe non è quasi mai il giorno più propizio per riflettere se rimanere o lasciare il luogo della tragedia. L’aria è ancora sovraccarica soprattutto di sentimenti. Il sentimento dell’onore militare impone di restarci a maggior ragione. L’istinto del rifiuto del sangue spinge quasi per un riflesso condizionato alla fuga. Eppure alcune riflessioni su questa guerra fra le moltissime che suggerisce dovranno pur essere fatte per ripensare le sue motivazioni, i suoi scopi, i suoi mezzi e i suoi tempi e che qui si possono solo brevemente accennare anche se ne discute ormai da tempo nelle sedi più interessate.

La guerra in Afghanistan fu decisa sulla base della generica lotta al terrorismo di cui il paese asiatico sarebbe stato la testa e la mente. Ora la guerra in Afghanistan non va bene («la stiamo perdendo» dicono perfino i generali), ma la lotta al terrorismo almeno per quanto riguarda il mondo occidentale non va poi così male. Dopo 1’11 settembre gli Stati Uniti non hanno subito altri attacchi. Dopo il 2004 e il 2005 anche l’Europa è rimasta al riparo. Gli attentati in Spagna del 2004 e in Gran Bretagna del 2005 furono opera di terroristi nati e addestrati sul posto che non avevano nulla a che vedere con l’Afganistan. Siamo proprio sicuri che il terrorismo si identifichi con l’Afghanistan?

In Afghanistan ci si andò anche per dare la caccia a Bin Laden. Oggi non sappiamo se Bin Laden sia ancora vivo o sia morto. Comunque se è ancora in piedi la maggior parte degli osservatori lo danno presente in Pakistan e con precisione nella regione del Waziristan da sempre santuario per ogni avventuriero. Siamo sicuri che il problema sia l’Afghanistan e non il Pakistan?

Otto anni fa i talebani furono cacciati in pochi giorni dall’Afghanistan per opera soprattutto dei guerriglieri locali, i cosiddetti «signori della guerra». La truppe Nato arrivarono praticamente a cose fatte e con la loro presenza i talebani sono cresciuti in pratica di cinque volte e sono tornati ad occupare di fatto l’ottanta per cento del territorio. In che cosa hanno sbagliato le truppe Nato per riuscire a produrre addirittura in molti afgani la nostalgia dei talebani? In Afghanistan ci si andò anche per portarci la democrazia. Ora forse non è impossibile introdurre la democrazia in un paese che è fra gli ultimi dieci paesi più poveri del mondo e con quasi l’ottanta per cento di analfabeti anche se questo miracolo finora non si è mai visto né in Africa né in Asia. Però se si vuol provare a costruire questo grattacielo nel deserto bisogna avere anche la voglia di restare in Afghanistan qualche decennio anziché qualche anno. Sarebbe già molto se in un paese senza strade e senza elettricità, senza una burocrazia e il personale istruito necessario per organizzarla si riuscisse a creare un minimo di stato funzionante.

I grandi rischi che si corrono in Afghanistan sono soprattutto due. Se i talebani tornassero al potere potrebbero richiamare Al Qaeda nel paese e permettergli di usare un territorio per le sue operazioni terroristiche. Secondo pericolo ancora più grave è che il trionfo dei talebani in Afghanistan si trascini dietro anche la loro vittoria in quel Pakistan in cui sono nati e cresciuti con la conquista di uno stato padrone della bomba atomica da parte di un movimento contiguo con il terrorismo se non terrorista.

E tuttavia di fronte al deteriorarsi della situazione e ad una opinione pubblica europea e americana sempre meno convinta del mantenimento di truppe in un paese che nella sua storia ha già sconfitto prima gli inglesi e poi i russi bisogna rinunciare alle grandi visioni palingenetiche e cercare solo quello che si può cercare. Che cioè siano gli afgani stessi con le loro forze, la loro storia, i loro interessi e la loro organizzazione sociale ad impegnarsi a tenere lontano dal potere chi in un modo o nell’altro ha rapporti con Al Qaeda.