Opinioni & Commenti

Afghanistan, cinque anni sprecati

di ROMANELLO CANTINI

La guerra in Afghanistan, che mette a dura prova la politica estera del nostro Paese e avvelena anche la nostra politica interna fra ricatti e messaggi di orrore, dovrebbe essere finita almeno da sei anni. Nel novembre del 2001 appena due mesi dopo l’attentato alle Torri Gemelle, la coalizione dei cosiddetti “signori della guerra” afgani che aveva scatenato l’offensiva contro i talebani entrava a Kabul e non solo i governi, ma anche i giornali, si sbilanciarono a mettere la parola fine sul regime che aveva dato ospitalità a Ben Laden e sulla guerra che sembrava aver sconfitto il famoso mullah Omar ormai in fuga. Karzai, il capo della colazione antitalebana, fu riconosciuto dal Consiglio delle tribù afgane e poi confermato come presidente in elezioni abbastanza regolari. Poiché con la presunta fine della guerra, la coalizione internazionale di 70 Paesi che aveva preso parte alla operazione denominata Enduring Freedom sembrava aver esaurito il suo compito, fu inviato nel Paese un contingente di truppe Nato sotto l’autorizzazione dell’Onu con il fine di aiutare a garantire la sicurezza e di favorire la ricostruzione del Paese.

Da allora esiste un grande equivoco fra chi ancora oggi si trova in Afghanistan con il compito di combattere come gli americani e gli inglesi e chi invece, come i tedeschi, gli italiani, gli spagnoli e i francesi dovrebbe solo dare una mano nel rimettere in piedi un Paese che dopo la guerriglia antisovietica, la conquista, la cacciata e la rivincita dei talebani da trenta anni non riesce ad uscire dalla guerra.

Ma nonostante le premature proclamazioni di vittoria, il regime di Karzai non è mai riuscito ad estendere la sua autorità al di fuori della capitale e della sua periferia. I talebani in rotta sono riusciti prima a fissare delle sacche di resistenza e poi a riprendere la controffensiva partendo dal Sud del Paese che ora è di nuovo quasi completamente nelle loro mani. La guerriglia dei talebani è cambiata in qualità più ancora che in quantità e assomiglia sempre più ad una replica dell’Iraq. Alle imboscate coi fucili e i missili si sono aggiunti gli attentati dei kamikaze, i rapimenti a scopo di ricatto, l’uso mediatico e propagandistico delle proprie gesta. Nell’anno scorso gli attentati terroristici sono stati cinque volte superiori a quelli di cinque anni fa. E sempre nel 2006 sono stati uccisi 170 militari e 4.500 civili.

La risposta da parte americana è quella ormai solita in qualsiasi teatro di guerra di martellare dal cielo con l’aviazione le presunte basi di guerriglieri con i risultati facilmente immaginabili anche qui dopo le troppe esperienze del passato. Eppure dalle duecento incursioni aeree del 2005 si è passati alle oltre duemila incursioni dell’anno scorso e alle quasi mille del primo mese di quest’anno. Ma la ripresa sempre più violenta dell’iniziativa dei talebani può contare su molte ragioni di forza. Fra queste la disillusione di una popolazione che è fra le più povere del mondo, che non ha visto ancora decollare la ricostruzione del Paese e che come quasi esclusiva risorsa può contare sulla coltivazione massiccia e ormai incontrollata dell’oppio.

Il Pakistan inoltre si rivela sempre più come il tranquillo santuario della guerriglia e il luogo indisturbato dove l’integralismo islamico può accogliere e addestrare i candidati alla guerriglia e agli attentati suicidi provenienti da tutto il mondo.

Una maggiore attenzione alla realtà sempre più desolata del Paese e un più costante lavoro diplomatico verso chi in un modo più o meno subdolo continua ad essere sponsor di questa guerra potrebbero portare contributi più efficaci di una risposta militare che in cinque anni non solo non ha vinto una guerra, ma sembra aver perso una vittoria.