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Adagio: c’è di mezzo l’essere umano!

di Franco VaccariL’antica sapienza recita che la misura di una civiltà è data dalla cura verso i bambini e gli anziani: la vita in loro manifesta la sua massima grandezza e vulnerabilità. È lecito oggi chiedersi se tale eco sia sbiadita o conservi la forza di parametro universale. Rispondere è come avanzare contemporaneamente su due percorsi, tracciati con pari evidenza dalla nostra cultura.

Uno si amplia fino a diventare un orizzonte, ed è disegnato dal complesso di leggi e di comportamenti sociali che fissano la tutela della vita come bene supremo, ogni volta che questa si presenta fragile e indifesa come il bambino, il vecchio, il rifugiato, il malato, il povero.

L’altro è come un grafico con picchi taglienti di fenomeni individuali e collettivi dove l’atteggiamento «laicamente sacro» di attenzione e rispetto si sovverte e si vanifica in forme diverse, ritenute ora orrende ora accettabili, evidenziando così un paradosso culturale.

I due tracciati corrispondono a due precisi atteggiamenti: l’amore per la vita e il dominio su di essa. Il secondo ha due volti: uno efferato, immediatamente violento – la madre che getta la propria creatura nel cassonetto dell’immondizia – l’altro apprezzato e proposto con buona intenzione – fare della propria vita ciò che si vuole – si presenta anteponendo la libertà alla vita, come se la prima fosse una sorta di fai-da-te morale.

A una manciata di ore dal giorno della memoria, abbiamo ancora davanti a noi l’orrenda schizofrenia dei nazisti: terribili aguzzini che giocavano amorevolmente con i propri figli. Spielberg, in Schindler’s list, carezza con la macchina da presa una piccola bimba col cappottino rosso, nella fila che va al macello: la vita luminosa nel buio della morte. Molti si tolsero la vita prima che altri gliela togliessero. Invece Liliana Segre, ragazzina sopravvissuta ad Aushwitz, ripete, al cuore della propria laica testimonianza: «dovevo vivere, volevo vivere, …. La vita! La vita!», rammentando che quando ebbe l’opportunità di impugnare una pistola per farsi giustizia del suo aguzzino tragicamente in fuga, la rifiutò perché sentì emergere un «io sono diversa, io amo la vita!».

La civiltà è debitrice a tutti gli attaccati alla vita, famosi o nascosti. Nelle testimonianze dei condannati a causa della giustizia, la perdita della propria vita acquista una fulgida luce nella prospettiva del dono. Negli intonaci di mille galere un chiodo o le unghie hanno graffiato l’unico amore per la vita che veniva tolta. Al di là dei fili spinati, a poche centinaia di metri, persone più o meno civili, ogni giorno lavoravano, dormivano e poi si alzavano.

Se oggi vogliamo ancora vivere, dobbiamo andare dentro quei reticolati: in quella vita strappata, paradossalmente, troviamo la vita, mentre in quella tranquillità ignara o vile che vegetava accanto, no. Perché è una cosa strana la vita: si può solo donare. Non si può trattenere, non si può possedere. Quando ci si avvicina alla vita dobbiamo frenare. Non solo per rispettare le macchine che portano un bimbo. Sempre. Adagio: c’è di mezzo la vita! Se la persona singola è arrivata alla rinuncia di questo bene primo, la comunità non può che andare oltre il segno su cui le forze individuali si sono infrante, esprimendo una parola inequivocabile che segni il sacrale rispetto di chi non si considera padrone della vita, ma solo suo custode. Non c’è scelta: la vita è come un piccolo testimone che ti è messo in mano mentre corri e, magari, non sai neppure perché. Puoi solo passarlo in un’altra mano, godendo della corsa che continua davanti ai tuoi occhi.

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