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A vent’anni dall’euro il reddito crea ancora disuguaglianze
Nel lontano 1954 si cominciava già a parlare del Mercato Comune Europeo, un progetto in cui il libero mercato sarebbe stato introdotto fra i paesi del Vecchio Continente con molti più limiti e con molta più gradualità di quello che sarebbe poi stato il libero mercato disegnato dal trattato di Maastricht. Eppure già allora De Gasperi, parlando alla Conferenza parlamentare europea, avvertì che il liberismo economico da solo aveva dei rischi se non era corretto e guidato da un qualcosa che fosse superiore alle fredde leggi economiche e alle pure regole del mercato.
Parlando a Parigi il 21 aprile alla Conferenza parlamentare europea colui che pure don Milani avrebbe accusato di essere un «liberale» disse: «L’allargamento del mercato comune è un argomento che offre la sua importanza, ma la libera concorrenza (…) presenta anch’essa degli aspetti negativi che possono essere ridotti solo dalla forza di un sentimento e di una idea capace di stimolare la coscienza». E a chiarimento della forza che invocava aggiunse: «Voglio parlare del retaggio comune europeo, di quella morale unitaria che esalta la figura e la responsabilità della persona umana con il suo fermento di fraternità evangelica».
Sarà per tanti motivi, non ultimo l’affievolimento nel Vecchio Continente di quel sentimento religioso a cui De Gasperì affidava la salvezza della solidarietà fra le persone e fra i popoli, ma non c’ è dubbio che in questi giorni in cui si è celebrato il ventennale dell’euro è apparsa evidente, fra i tanti e infiniti pro e contro nella interminabile discussione intorno all’Europa di Maastricht, soprattutto la diseguaglianza che si sta diffondendo all’interno dell’Europa.
I dieci paesi ex-comunisti dell’Europa dell’Est, rimasti in buona parte o per lungo tempo fuori dell’eurozona, negli ultimi venti anni hanno aumentato molto il loro reddito fino a raddoppiarlo in alcuni casi (Lituania, Lettonia), ma rimanendo ancora lontani dal reddito dell’Europa Occidentale. Da un lato ci sono i redditi pro capite massimi della Slovenia (18.000 euro) e della Repubblica Ceca (15.500 euro). Dall’altro ci sono i redditi minimi della Bulgaria (5.700 euro) e della Romania (7.200 euro).
E i paesi della zona euro in questi venti anni hanno progredito in maniera molto disuguale. Secondo i dati Eurostat il reddito medio di un tedesco è cresciuto da 29.400 a 34.400 euro. Quello di un italiano è invece addirittura diminuito da 27.800 a 25.500 euro ed è ormai a livello del reddito medio dei paesi europei che comprende anche il reddito molto basso dei paesi dell’Europa dell’Est. Il nostro paese che in dieci anni si era ripreso dall’ultima guerra, dopo undici anni non ha ancora recuperato il reddito del 2007 dopo la grande crisi. Il reddito medio di un greco è crollato dal 30 al 40%. In genere in questi venti anni sono cresciuti di più con una percentuale a due cifre o quasi, oltre alla Germania (+15,6 %), l’Austria (+12,5 %), il Belgio (+11,8%), l’Olanda (+9,7 %). Sono cresciuti meno la Francia (+6,66%), la Spagna (+4,5%), il Portogallo (+1,22 %).
E non si tratta solo di una differenza fra nazioni che può dare adito anche a polemiche e rivendicazioni di stampo nazionalistico. È cresciuta anche la disuguaglianza all’interno dei singoli stati a dimostrazione che, al di là dei presunti perdenti e vincenti fra stati, è soprattutto il meccanismo di sviluppo generale che tende ad impoverire ed ad arricchire le persone anche laddove si immaginerebbe l’universalità del benessere. Un’altra indagine di Eurostat (Regional Gdp per capital ranged from 29% to 611% of the average) ripresa da Il Sole 24 ore del 2 gennaio scorso ci dice che, inaspettatamente, per dirla con Trilussa, anche all’interno dei paesi più ricchi, dove sembrerebbe che tutti mangino il loro bravo mezzo pollo, in realtà c’è chi mangia il suo pollo intero anche per chi non ne mangia nessuno.
In pratica la ricchezza si restringe sempre più a macchie di leopardo soprattutto intorno alle grandi città della finanza e dei servizi. Il 72% dei francesi periferici ha un reddito inferiore alla media dell’Ue contro la minoranza fortunata concentrata nell’Ile de France (reddito medio di 53.000 euro) con la ricchissima Parigi e nella regione del Rodano Alpi. Anche i due terzi della popolazione del Regno Unito vive con un reddito inferiore alla media europea di fronte ad una ricchezza concentrata soprattutto intorno alla enorme opulenza di Londra (reddito medio di oltre 200.000 euro) e al benessere di qualche altra città minore. Pure in Spagna il 64% degli abitanti gode un reddito inferiore alla media con i più favoriti concentrati nei Paesi Baschi, in Catalogna e a Madrid.
In Germania al contrario l’82% della popolazione vive con un reddito superiore alla media europea con i più poveri rimasti tali praticamente solo nella ex-Germania Est. Curioso è anche il fatto che, secondo questa ricerca, anche in Italia il 62% degli abitanti residenti a Nord oltre che in Toscana e in Lazio vivrebbe con un reddito superiore alla media. Il dato paradossale rispetto agli italiani che in genere sono collocati intorno alla media di reddito dell’intera Europa potrebbe essere spiegato con l’enorme abisso che separa ormai il Nord dal Sud del nostro paese: il reddito di un lombardo è di 36.600 euro e il reddito di un calabrese è meno della metà, con 16.200 euro.
Di fronte a fenomeni come i «gilet gialli», la Brexit, i populismi, le democrazie illiberali, la crisi dei vecchi partiti, la frantumazione delle forze politiche, la crescente ingovernabilità con quattordici governi europei su ventotto senza maggioranza in parlamento, l’astensionismo elettorale crescente, le tendenze secessioniste che sono il rigurgito politico di un grande malessere sociale, i veri europeisti dovrebbero ricordarsi oggi soprattutto di quella solidarietà che un grande «sansepolcrista» dell’Europa Unita, come De Gasperi, invocava prima ancora che della Comunità Europea ne fosse gettato perfino il seme.