A 6 mesi dal devastante maremoto che ha sconvolto otto Paesi dell’Oceano Indiano (Indonesia, India, Maldive, Thailandia, Myanmar, Malesia, Sri Lanka), il numero complessivo delle vittime è ancora incerto: si parla di circa 214.000, ma oltre 40.000 persone risultano tuttora disperse. E sono ancora oltre 1.237.000 gli sfollati. I danni maggiori si registrano in Indonesia, dove il 28 marzo un nuovo sisma ha portato a oltre 165.700 il numero di morti e dispersi. Dopo l’Indonesia è lo Sri Lanka a figurare tra i Paesi più gravemente colpiti con oltre 31.000 morti, 8mila dispersi, 700.000 sfollati. La Caritas italiana ha ricevuto 13 milioni di euro, che rientrano nei 200 milioni di euro complessivi messi a disposizione dalla rete internazionale Caritas, che ha già assistito 1 milione e 600mila persone in 532 campi profughi. In Sri Lanka la Caritas italiana lavora a Jaffna, Chilaw e Colombo con uno stanziamento di 1,6 milioni di euro per il ripristino delle attività produttive, programmi per minori, costruzione di rifugi temporanei. Nei prossimi mesi l’impegno si concentrerà sugli alloggi e la ripresa economica. Tre gli operatori italiani presenti, tra cui il pisano FRANCESCO PALETTI, a Colombo da gennaio in qualità di coordinatore nazionale. Gli abbiamo rivolto alcune domande.A distanza di sei mesi come procede la ricostruzione? Ci sono ritardi?I ritardi sono dovuti al fatto che il governo ha posto il divieto di costruire sulla fascia costiera (buffer zone) per motivi di sicurezza ma la maggior parte delle persone erano proprietarie di terre in quelle zone e vivevano di pesca. In questo momento la terra per costruire si trova solo a 4-5 km dal mare. Tutti vogliono continuare a fare i pescatori, ma è difficile a queste distanze dal mare. Noi cerchiamo di coinvolgere il più possibile le comunità nel processo decisionale, altrimenti si rischia che critichino e si lamentino perché stufi di vivere ancora negli shelters, prefabbricati in legno con tetti di foglie secche di cocco. Molti hanno cominciato a ricostruire per conto proprio nella buffer zone, nonostante il divieto. Per legge rischiano lo smantellamento delle case, ma poi a livello governativo non c’è chiarezza perché si parla anche di approccio flessibile. A livello ambientale c’è chi dice che è una misura inutile e chi dice invece che ha assolutamente senso. Nei fatti è un ostacolo grosso alla ricostruzione.Ma come si vive negli shelters? Sono ancora in tanti?Sì. Laddove c’è stato un minimo di attenzione alla vivibilità, con piccoli accorgimenti che poi nella vita quotidiana fanno la differenza, ci si può stare. In altri campi, come a Trincomalee, sono stati costruiti invece shelters che erano come lattine di lamiera. Potete immaginare come ci si vive quando fuori la temperatura è di 30 gradi con il 95% di umidità Chi ha potuto, ha cercato riparo provvisorio da amici e parenti. Noi li abbiamo anche sostenuti per i lavori. Abb iamo distribuito razioni di cibo e coperte.E le altre attività come procedono?Gli aiuti per la ripresa delle attività produttive e il supporto psico-sociale danno meno problemi. Le famiglie ricominciano a lavorare e ad avere una vita un po’ dignitosa. In Sri Lanka c’è notevole attenzione alla formazione dei ragazzi da parte delle famiglie, anche nei villaggi più poveri. Abbiamo, quindi, programmi di accompagnamento che prevedono varie forme di sostegno, dall’acquisto delle uniformi per i bambini e dei libri al sostegno extrascolastico.Quali conseguenze a livello umano e psicologico, soprattutto per i bambini?I pescatori vogliono andare verso l’interno perché si sentono traditi dall’oceano, da cui avevano sempre ricavato il necessario per vivere. Da un giorno all’altro per loro è cambiato tutto. Le crisi personali ci sono stati anche diversi casi di suicidio – sono più frequenti al Sud che altrove. Forse perché lì vive il ceto medio-alto, abituato a un tenore di vita più elevato e, quindi, meno pronto a confrontarsi con un dramma così grande. Al Nord, invece, la gente ha avuto la casa distrutta due volte, prima dalla guerra civile con i guerriglieri tamil, poi dallo tsunami. Tra i bambini: chi ha perso gli adulti di riferimento ha sofferto molto. Il tempo aiuterà ma all’inizio, nei n ostri 14 centri dove assistiamo 150 bambini, alcuni faticavano a dormire. Altrove c’erano bambini fortemente traumatizzati, che non parlavano. Il dramma emerge dai disegni o dalle altre forme di espressione artistica che utilizziamo per aiutarli, ad esempio il teatro di strada. Il nostro obiettivo è fare in modo che queste durezze non condizionino troppo la loro vita, che possano studiare e non chiudersi in se stessi. Come giudica l’organizzazione generale degli aiuti?Siamo in tanti e questo è positivo, perché c’è grande disponibilità e competenze. Qualche volta ci sono problemi di coordinamento anche se non mancano le riunioni tra Ong e agenzie delle Nazioni Unite. Enorme è la stata la risposta della comunità internazionale e dei privati. Si parla di 3 miliardi di dollari arrivati allo Sri Lanka da altri governi. Ma alle Caritas diocesane ricordo sempre che avere a disposizione tanti soldi non è motivo per fare presto ma per fare meglio. Cosa è necessario per lavorare meglio nell’immediato futuro?Sbloccare la situazione che impedisce la ricostruzione. E pensare a un intervento che tenga conto dei problemi complessivi dello Sri Lanka. Al Nord sarebbe stato un paradosso rifare solo le case delle vittime dello tsunami e non di chi le aveva distrutte d ai bombardamenti e dalla guerra. Spero che tutti lavorino tenendo in considerazione la povertà e i problemi strutturali del Paese, senza far venire meno nel lungo periodo il sostegno e il supporto. a cura di Patrizia Caiffa