Toscana
A Prato Comune e Provincia si fanno la guerra per 13 profughi
di Damiano Fedeli
La guerra, quella vera, i loro occhi l’hanno vista in faccia e se la porteranno dentro per sempre, queste tredici persone e anche la piccola Jessica, otto mesi. Se la portano dietro anche quassù a Cerreto, sui colli a Nord di Prato da dove in lontananza si vede la città. Laggiù ne divampa un’altra di guerre, quella fra il Comune e la Provincia, patetica se confrontata a quella dove si spara e si muore, inutile scaramuccia fra istituzioni di colore politico diverso, ma dai toni quanto mai aspri. E si combatte proprio su queste persone. Questi pochi profughi fuggiti dalla Libia dove lavoravano sono adesso ospiti in una casa di proprietà della parrocchia di Santa Maria delle Carceri, gestita dalla Fondazione Opera Santa Rita. L’accoglienza è curata in collaborazione con la Caritas diocesana.
Sono due coppie, una originaria dal Burkina Faso, con la neonata, una dalla Nigeria, sette del Bangladesh, due pakistani (nella foto). Tutti lavoravano a Misurata, città martire del conflitto fra Gheddafi e i ribelli al suo regime, e hanno dovuto lasciare lì ogni cosa. Sono qui da mercoledì della settimana scorsa. Il giorno prima, la Provincia di Prato, a guida centrosinistra, aveva annunciato che era in arrivo a Genova una nave con 180 profughi provenienti da Lampedusa e che la Regione Toscana aveva richiesto ufficialmente alla Provincia di ospitare una dozzina di queste persone richiedenti asilo politico. L’assessore provinciale alle Politiche sociali, Loredana Ferrara, dopo averne concordato la disponibilità, indicava il luogo dove avrebbero trovato accoglienza proprio nella struttura diocesana di Cerreto. Ovvero proprio nel territorio del Comune di Prato la cui amministrazione, di centrodestra, da tempo, negava la propria disponibilità ad accogliere profughi, a causa, come più volte l’assessore comunale all’integrazione Giorgio Silli aveva ripetuto, dell’alta densità migratoria che insiste sul territorio pratese. L’iniziativa della Provincia, ha fatto sentire il Comune scavalcato. «Un atteggiamento istituzionalmente scorretto verso di noi, ciò è assolutamente inaccettabile», ha detto Silli. «La nostra città è sempre stata accogliente ma al momento non possiamo, responsabilmente, accettare sul nostro territorio altre presenze che graverebbero ulteriormente sulla cittadinanza».
Il sindaco Cenni è poi andato a trovare e si è trattenuto fra i profughi, ma il fuoco è divampato poi fra Comune, Provincia, allargandosi poi alla Regione, per lambire anche il Vescovo. In uno scontro che ha travalicato i toni, nonostante i richiami da più parti ad abbassarli. Così in un crescendo l’assessore provinciale Loredana Ferrara, in una discussa intervista ad una web radio cittadina, ha minacciato di denunciare il Comune all’Unar, l’ufficio nazionale antidiscriminazioni, per le ordinanze «anti» kebab e i divieti di apertura oltre mezzanotte ai negozi della Chinatown. Accuse, passi indietro, minacce dal Comune di interrompere le collaborazioni reciproche fra i due enti. Un clima avvelenato.
Stanley è il più loquace dei tredici profughi arrivati qua. Mostra i segni sulla schiena e sulle gambe, le violenze dei soldati di Gheddafi che lo volevano mercenario fra le loro fila contro la sua volontà. Delle polemiche locali, per sua fortuna, non sa nulla. «Grazie a Dio siamo vivi!», ripete in inglese. «Grazie Italia: ti sarò eterno debitore perché ci hai salvato la vita».