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A Gerusalemme anche un restauro può essere un «miracolo»
A Betlemme l’impresa del pratese Giammarco Piacenti, che da tre anni è impegnata nel restauro della basilica della Natività, sta cercando di recuperare quanto più è possibile del mirabile programma musivo che appare tuttavia largamente compromesso da violenze, incendi, terremoti, profanazioni. C’erano migliaia di metri quadri di mosaico: ne resta poco più di un centinaio. Ma ogni tanto si fanno scoperte: come un bellissimo angelo risplendente di colori preziosi di recente venuto alla luce.
L’angelo sembra recare un annunzio che si stenta a credere autentico. Esso riguarda la basilica della Resurrezione di Gerusalemme: quella che per i greci è l’Anastasis e per noi, popolarmente, «il Santo Sepolcro». Una leggenda risalente al IV secolo, e della quale hanno parlato sant’Ambrogio e l’agiografo Giacomo da Varazze, riferisce che Elena, la pia imperatrice madre di Costantino, si recò verso il 330 a Gerusalemme e con tenacia pari all’autorevolezza riuscì a individuare, sotto certi monumenti pagani che sembravano essere stati eretti per seppellire per sempre le memorie cristiane, i luoghi della crocifissione, della morte e della sepoltura del Salvatore. Pare che già prima di allora esistesse là una memoria di pellegrinaggio. Certo, da allora sorse una splendida basilica destinata a custodire quel che restava del monte Calvario e della tomba di Gesù. Passarono i secoli. Gerusalemme e il Sepolcro furono occupati e saccheggiati dai persiani sasanidi del Gran Re Kushraw nel 614, riconquistati dal basileus greco nel 614, ripresi dall’imperatore Eraclio nel 628, conquistate nel 638 dal califfo musulmano Umar nel 638. Tuttavia, i seguaci del profeta Muhammad rispettarono la santa basilica e permisero di compiervi il pellegrinaggio a chi dalla Cristianità avesse voluto visitare quei luoghi, pagando un pedaggio nel complesso equo.
Dagli arabi del VII secolo Gerusalemme passò successivamente sotto la sovranità dei fatimidi d’Egitto, quindi dei crociati, poi ancora dei mamelucchi egiziani, quindi degli ottomani, poi dal 1918 della potenza «mandataria» britannica, infine degli israeliani sionisti che conquistarono la città vecchia nel 1967 e unilateralmente la proclamarono capitale eterna del loro stato. I cristiani «latini», cioè cattolici, ne erano stati espulsi dal Saladino nel 1187 ma a metà Trecento, grazie all’amicizia tra i re angioini di Napoli e i sultani mamelucchi del Cairo, un piccolo gruppo di frati minori vi venen riammesso, s’insediò in un convento del Sion e prese a officiare nella basilica del Santo Sepolcro, che però i musulmani avevano affidato alle altre comunità cristiane le quali se l’erano spartite (greci ortodossi, monofisiti siriani, monofisiti cattolicizzati armeni, maroniti libanesi, copri egiziani ed etiopi).
La splendida ancorché cadente basilica, l’ultimo restauro organico della quale era stato effettuato dai crociati in pieno XII secolo, veniva spartita tra comunità cristiane che se ne contesero cappelle ed altari: e talora con tanta violenza da obbligare nel Cinquecento il sultano d’Istanbul, allora sovrano della città, a introdurre nel sacro edificio una guardia armata musulmana deputata a mantenere l’ordine. Essa c’è ancora, per quanto sia ormai dopo il ’67 costituita da poliziotti arabi israeliani di fede ovviamente musulmana. Ma dal momento che, dal documento convenuto nel 1852 e detto Status quo, le singole confessioni cristiane abbiano ciascuna diritto alla loro circoscritta porzione di santuario, la convivenza è rimasta difficile e i restauri globali impossibili in quanto è arduo accordare tra loro voci tradizionalmente ostili e concorrenti.
Eppure, da qualche mese paia stia avvenendo un miracolo. Gli esponenti delle differenti comunità cristiane sembrano aver compreso alla fine che un accordo è necessario e vantaggioso per tutti. Il restauro sarà lungo, ben oltre i 12 mesi previsti. Agli archeologi cristiani – primi fra tutti i frati dello Studium Biblicum Franciscanum come i padri Testa e Alliata, che hanno continuato l’opera dell’indimenticabile padre Michele Piccirillo – si sono uniti quali consulenti i competentissimi specialisti dell’Israelian Antiquity Service con la geniale guida di Dan Bahat dell’Università Ebraica di Mount Scopus, uno che conosce la Città Santa pietra per pietra. I fondi verranno dalla generosità di Abdallah II re di Giordania: che non è certo il più ricco tra i capi di stato musulmani ma è quello che, come il padre Hussein, è sempre stato il più sollecito nei confronti dei bisogni di Gerusalemme. Insomma: unità tra le confessioni cristiane, unità fra le tre religioni abramitiche nel restauro di un bene che è patrimonio comune. Un miracolo, come dicono tutti. I miracoli li fa solo Iddio onnipotente. Che però si è evidentemente servito, in questo caso, di un mediatore accorto ed energico. Papa Francesco, che vuole davvero far di Gerusalemme quel che il suo nome significa, la «Città della Pace».