Cultura & Società
A 45 anni da via Fani, il caso Moro ha diviso in due la storia
L’omicidio di Moro e dei 5 agenti di scorta fu il gesto sanguinario più devastante, quello che più di ogni altro ha colpito la coscienza dell’Italia e incrinato il rapporto fra società civile e mondo politico.
Mai potrà diventare un capitolo del passato, finché non si conoscerà tutta la verità. E nonostante un teoria interminabile di processi e di sentenze, di commissioni parlamentari e confessioni, di memoriali, libri, film, interviste, la verità ancora non si conosce. Non si conosce nemmeno l’identità di tutti quelli che furono coinvolti nella strage, esecutori, organizzatori e mandanti. Ci sono terroristi che non si riescono a processare, come Alessio Casimirri, latitante in Nicaragua. E ce ne sono altri, come Mario Moretti, l’uomo che uccise materialmente Aldo Moro, sul quale pesano sei ergastoli, che vive in regime di semilibertà e da gennaio lavora per un’associazione di volontariato di Brescia in smart working, gode di permessi premio, licenze straordinarie, periodi fuori dalle mura del carcere anche di notte. Moretti è uno i quelli che non ha raccontato tutto.Non si possono considerare chiusi gli anni di piombo se non si capirà chi ordinò alle Brigate Rosse di uccidere Moro e perché. Questa persistente incertezza lascia spazio a ricostruzioni tutte plausibili ma nessuna sicura. Le versioni date in pasto all’opinione pubblica nei giorni del sequestro furono una colossale fake news, si direbbe oggi. E siamo a chiederci se tante storie raccontate negli anni, la superficialità delle indagini, le reticenze di testimoni, i possibili covi ignorati dagli investigatori, le improbabili sedute spiritiche per evocare il nascondiglio dello statista democristiano furono davvero parte di quel dramma o frutto di fiction postume. È ancora inconcepibile che intorno a una vicenda politica e umana tragicamente seria, sia stato possibile costruire un circo di situazioni surreali e di misteriosi personaggi che hanno alimentato il travisamento della realtà.Il caso Moro non si è fatto mancare nulla del complottismo permanente effettivo, nazionale e internazionale. Dal ruolo degli Stati Uniti a quello più plausibile dell’Unione sovietica, compresa l’infiltrazione dei servizi segreti israeliani e della loggia massonica P2 di Licio Gelli. Una giungla talmente complessa che una versione esclude l’altra, ma tutte continuano a trovare cittadinanza nello spettro delle possibili verità.
Quando fu prelevato e la sua scorta massacrata in via Fani, Aldo Moro era presidente della Dc e stava andando in Parlamento a votare la fiducia al governo Andreotti, il primo con l’appoggio del Partito comunista. Una formula di compromesso storico della quale Moro era stato il grande architetto e che avrebbe creato scompiglio sia a Est che in Occidente.L’Unione sovietica temeva che il Pci entrando nell’area di governo, attraverso un processo di democratizzazione, avrebbe inferto un colpo durissimo al suo sistema di potere. La reazione di Mosca a tutto ciò che poteva incrinare il monolite dell’Est era già ben nota, nel 1956 in Ungheria e nel 1968 a Praga. In fondo, a ben guardare, assistiamo ancora oggi a quell’imperialismo che spinge la Russia a invadere l’Ucraina applicando lo stesso metodo del ‘56 e del ‘68, segno che il Dna non è cambiato e così, come allora toccò all’Ungheria e alla Cecoslovacchia, oggi sta toccando a Kiev.
Portando il Pci al governo, Moro aveva concretizzato un processo maturato all’interno del partito. Lo conferma la celebre intervista che Enrico Berlinguer fece nel 1976 (due anni prima dell’assassinio di Moro) con Giampaolo Pansa, al quale il leader comunista confidò di sentirsi più protetto dal Patto Atlantico che dal Patto di Varsavia. Insomma, meglio con gli americani che con i sovietici.
Eppure l’atteggiamento degli americani non fu meno severo nei confronti di Moro. Gli Stati Uniti non approvavano il coinvolgimento del Partito comunista nel governo italiano. Non si fidavano. Il 25 settembre 1974 Moro era in visita negli Stati Uniti come ministro degli Esteri e dal segretario di Stato Henry Kissinger, ricevette un avvertimento perentorio: «Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui o lei smette di fare queste cose o lei la pagherà cara». Un ulteriore ammonimento avvenne due anni dopo. La preoccupazione degli americani era strategica, perché se i comunisti fossero entrati nel governo, avrebbero conosciuto i segreti della Nato e potevano anche premere per sfrattare la basi militari dal suolo italiano.
Ma c’è anche chi – come il giudice Ferdinando Imposimato, che indagò sul delitto del leader Dc – era convinto che il destino di Moro si fosse legato a quello di John Kennedy, già dalla visita in Italia del presidente Usa nel 1963: entrambi sostenitori della politica del dialogo con i socialcomunisti contro il parere dei conservatori statunitensi e dei petrolieri. Questo sguardo comune li avrebbe condotti a divenire bersagli degli stessi nemici, ostili a qualunque dialogo con le forze progressiste.
Nei 55 giorni del sequestro mentre l’Italia restava con il fiato sospeso, i partiti si dividevano fra la linea della trattativa con le Br e quella della fermezza per salvare l’onore dello Stato. Sull’onda emotiva qualcuno invocò il ripristino della pena di morte. «Siamo in guerra», fu il titolo in coro di molti giornali. Le lettere dal carcere del «prigioniero politico» Moro, che contenevano accuse ai democristiani e i disperati appelli a Benigno Zaccagnini e a Cossiga, venivano fatte passare come estorte dal clima creato dalla prigionia. Salvo poi rendersi conto che probabilmente quello era il pensiero dello statista. Quei 55 giorni cambiarono l’Italia, certo. Costrinsero un Papa a implorare i brigatisti perché rimettessero in libertà l’ostaggio, fino a offrire la sua Santa persona in cambio dell’amico. Ma anche sul ruolo di Paolo VI ci sono mezze verità – a parte quelle pubbliche – mai del tutto chiarite.
Con Moro vivo il cammino dell’Italia sarebbe stato diverso. Senza Moro il governo delle larghe intese si indebolì all’atto stesso della sua nascita. La storia ha seguito il suo corso, con le ambiguità che abbiamo visto fino ai giorni nostri. Oggi, con un vizio tutto italiano, continuiamo perennemente a rimpiangere e beatificare un uomo che quando era il momento, per diversi motivi, non tutti fecero davvero il possibile per salvare.