Cultura & Società
A 150 anni da Firenze capitale: svecchiata e stravolta per sei anni di «primato»
Un secolo e mezzo. Un’occasione, un’opportunità, un atto dovuto, una svista, una fatalità, un’avventura, un’illusione, un sogno, un incubo, un fate-un-po’-voi. Centocinquant’anni fa la cittadina appartata e sonnolenta, ancor cinta dalle sue antiche mura di cui resta oggi solo una porzione a sud-est, oltrarno, diventava capitale di un nuovo regno che univa sotto la sua autorità quasi tutta la penisola italica – Venezie e Friuli esclusi – dopo essere stata più o meno per tre secoli la Manhattan d’Europa, per altri due la capitale d’un ducato e poi granducato retto da una dinastia di ex-marcanti, per un secolo e mezzo circa uno dei centri di maggior rilievo – insieme con Milano e con Praga – dell’universo europeo asburgo-lorenese (a parte la breve parentesi giacobino-napoleonica, che aveva pur lasciato un segno). Ebbene, domandiamoci: che cose resta di quei cinque anni nei quali l’ex re di Sardegna, il «Re Galantuomo» gran cacciator di caprioli e di belle montanare, abitò lo sterminato palazzo Pitti la sulla collina di Boboli, cavalcando quasi ogni mattina per i sentieri di uno dei più bei giardini del mondo?
«Da secolare squallore a vita nuova restituita». Oggi, la scritta trionfalmente incisa sull’arco di piazza della Repubblica, ex mercato vecchio, la leggiamo quasi tutti con fastidio e con ironia. Perché l’architettura tronfia e banale dell’Italietta che imitava la Torino sabauda, che a sua volta per molti anni aveva imitato la Parigi di Napoleone «il Piccolo», oggi non la sopportiamo più granché; e perché oggi sappiamo e pensiamo, a proposito del restauro dei centri storici, cose che al tempo del «piccone risanatore» (tra Ricasoli e Mussolini, tra Poggi e Piacentini) erano davvero al di là dal venire. Eppure, chissà se così facendo noi non pecchiamo nei confronti dei nostri padri, che hanno (più o meno bene) «fatto l’Italia», dello stesso peccato che rinfacciamo loro nei confronti dei nostri antenati di quattro-sette secoli fa, quelli che avevano fatto Firenze e, perdinci, l’avevano anche fatta bene. Perché è vero che il piccone risanatore ha commesso danni irreparabili – dall’abbattimento della cinta muraria praticamente ancora intatta nel «fatale» 1865 allo stravolgimento del tessuto urbano del centro – , ma è anche vero che per i pur provinciali imitatori nostrani dei discutibili fasti parigini dei Baltard e degli Haussmann in ampia misura rispondevano anche, magari in modo presuntuoso e avventato, a mutate necessità cittadine: necessità demografiche, igieniche, politico-logistiche, in sé e per sé non aggirabili. Lo diciamo con un peso dentro, mentre ammiriamo per l’ennesima volta le vecchie foto d’un irrecuperabile centro storico con il suo patrimonio storico e archeologico ormai perduto; eppure, dovremmo aver oggi l’anacronistico e anticonformistico coraggio di confessarci che, fra quei gioielli perduti, c’era anche molto di fatiscente, di pericolante, di «superfetato».
Che poi aver qui da noi la capitale, tra ’65 e ’70, sia stato davvero un buon affare, è un altro discorso. Ma la convenzione del 20 settembre 1864, che ne aveva sancito la scelta, era un modo per uscir dall’impasse che già minacciava il neonato stato unitario.
Cinque anni prima, la «vittoria» piemontese e quindi l’inattesa eppure annunziata unione della penisola voluta «a furor di popolo» dalla sinistra garibaldina che aveva finito col travolgere e trascinarsi a rimorchio anche quasi tutta quella mazziniana e la gran parte dei «moderati toscani» (quelli sui quali il granduca Leopoldo II aveva contato fino all’ultimo istante), era stata in realtà un episodio ambiguo e amaro. Traditi i patti di Plombières, ai sensi dei quali Napoleone III e il conte di Cavour si erano accordati per una soluzione federale della nuova Italia liberata dall’egemonia austriaca. Ritiratosi l’imperatore dei francesi da un’alleanza che rischiava di condurlo a compromettersi in una futura aggressione allo stato della Chiesa che i cattolici suoi sostenitori in Francia non gli avrebbero mai perdonato, la penisola era stata invasa dai diplomatici e dagli affaristi inglesi e le due massonerie, l’italiana e la britannica, avevano cominciato a lavorare alacremente per rovinare il Papa e combinare grossi, grassi affari. Firenze, della quale i figli d’Albione erano perdutamente innamorati almeno da un secolo e mezzo, e la Toscana tutta che grazie all’impegno tecnologico e finanziario inglese sperava e disegnava grandi cose (lo sviluppo stradale e ferroviario, il rilancio di manifatture e di ferriere, il balzo in avanti del tessile pratese, l’affermazione definitiva del porto di Livorno come terzo del Tirreno, tra Genova e Napoli), era entusiasta. O quanto meno lo era la sua élite di proprietari terrieri già da tempo aperti agli investimenti bancari e industriali: altro, ormai, che i poderini in Chianti, la Toscanina, la culturina, tutte le cianfrusaglie del tempo di Canapone…Che poi davvero tutti fossero entusiasti, era un altro discorso. Non è che il famoso referendum d’annessione con il suo risultato «corale» ottenuto a suon di ricatti, di minacce e di brogli avesse proprio lasciato tutti contenti e persuasi.
Ma il nuovo regno d’Italia si era inaugurato all’insegna dell’anomalia: da quando in qua una nuova dinastia comincia con il Numero Due? Vittorio Emanuele II re d’Italia? Secondo! O il Primo? A quel punto un segnale forte ci voleva. Bisognava sfidare Torino e i piemontesi, che non lo avrebbero gradito (e difatti non lo gradirono); era necessario cambiar capitale e al tempo stesso dar l’impressione che il cambiamento fosse definitivo e che tutte le spacconate classicheggianti e giacobineggianti dei «democratici», col loro continuo cianciar di libertà cinta d’alloro e di virtù quiriti, non avrebbero portato a nulla: Roma sarebbe rimasta al papa. D’altronde, la vera grande capitale storica nella penisola, a parte Milano, era Napoli. Ma erano troppo compromesse, entrambe le metropoli, con dinastie precedenti, tutte più illustri della savoiarda; eppoi Napoli era troppo «mediterranea» per una classe dirigente italiana che ormai sognava l’Europa. D’altronde la questione d’una lingua comune era viva, il manzonismo premeva, bisognava che – dopo il sciur Lisander – tutta la penisola andasse a sciacquare i panni in Arno. Ugo Foscolo l’aveva già predetto, nei Sepolcri: la piccola città sull’Arno, la città del Divino Poeta Dante, era la capitale morale e spirituale d’Italia. Perché non farla diventare anche politica, già che oltretutto si trovava ben situata, così al centro dello Stivale?
Stipulata tra le due corti di Torino e di Parigi, la convenzione di Plombières aveva del resto già segnato anche l’ormai raggiunto accordo sul fatto che in Toscana non sarebbe più tornata una dinastia asburgo-lorenese: cosa questa che a Napoleone III, sulle prime, non era andata troppo giù. E del resto lo spostamento della capitale si stava rivelando il necessario, anche se forse non sufficiente, passo teso a impedire l’affermarsi di non sopite tendenze autonomistiche. Il ruolo culturale di Firenze nella storia d’Italia – un ruolo solo fino a un certo punto obiettivo, ma anzi sottolineato e perfino ampliato da una lettura e da un uso di tipo politico della cultura, che avevano programmaticamente sottovalutato le tradizioni policentriche del mondo italiano – sembrava indicare in essa la necessaria mediatrice almeno temporanea, a parte l’aspetto logistico dell’avvicinamento di corte, uffici e ministeri al traguardo ultimo di Roma, nel quale molti credevano fermamente e alcuni fingevano di credere e di volere. E nel suo opuscolo sulle Questioni urgenti, edito nel ’61 dal fiorentino Barbera, lo stesso Massimo d’Azeglio, ormai sempre più infiorentinito negli ultimi tempi, indicava lo spostamento della capitale come urgente e necessario.
Ma sulle rive dell’Arno, tra le pescaie di San Niccolò e di Santa Rosa, il futuro evento era guardato con una certa preoccupazione da ambienti che non erano solo quelli «codini». Del battage necessario a farlo accettare o a farlo comunque parer universalmente ben accetto (ambigua magia del media system nei sistemi liberal-democratici…) s’incaricarono circoli autorevoli di patrizi, di finanzieri e d’imprenditori, voce dei quali era il quotidiano «La Nazione», allora diretto da un giovanissimo e dinamico intellettuale destinato a una grande carriera nel mondo degli studi: Alessandro D’Ancona.
Il gran passo, quindi, si fece. E non si è lontani dal vero quando si afferma che, in molti sensi, la rifondazione del Comune di Firenze – al di là della sua ristrutturazione istituzionale e amministrativa, resa necessaria dal passaggio dal granducato di Toscana al regno d’Italia – si dovette soprattutto all’impulso alla forma che esso ebbe e che esso dovette affrontare dall’immediata vigilia del ’65 in poi. Senza dubbio, molte trasformazioni si sarebbero rese comunque necessarie: ché – come ricorda sintomaticamente Ugo Pesci nel suo libro del 1904 dedicato a Firenze capitale – «nel 1865, a Firenze si beveva l’acqua de’ pozzi». Incalzato dal governo, il municipio nominò nel novembre del ’64 una commissione, compito della quale era lo stabilire la priorità fra i lavori più urgenti. E fu il tempo della dittatura urbanistica e edilizia di Giuseppe Poggi, con i suoi fasti e i suoi nefasti. Si fa presto, oggi, a sorridere dell’altra lapide, quella apposta in piazzale Michelangelo, che al suo riguardo recita magniloquente: «Guardatevi intorno: questo è il suo monumento». Eppure senza la risistemazione del Poggi e dei suoi successori i viali dei Colli, il piazzale e così via non ci sarebbero, e Firenze sarebbe diversa da quella che è; il che significa che forse avrebbe svolto un altro ruolo nell’immaginario di tutti i visitatori del mondo, da oltre un secolo a oggi.
Gli inglesi furono l’anima modernizzatrice e danarosa dell’evento. L’anglobecerismo, già del resto imperante, esultò e trionfò delle nuove magnifiche sorti e progressive («Vòle mister? Vole màdamme? Vòle fiàcchere pe’i’ppiazzale?»). Il Comune stipulò nel luglio 1865 una convenzione per quanto riguardava i lavori più ingenti e impellenti con la Società Anglo-Italiana, che tuttavia non tardò a cedere obblighi e diritti derivanti dal contratto alla Florence Land and Public Works Company, presieduta da sir James Hudson. La più anglofila tra le città d’Italia affidava a mani britanniche la sua rifondazione, mentre altri britannici s’insediavano più o meno palesemente a capo delle imprese e delle banche fiorentine, oppure si stabilivano, grazie a numerosi matrimoni con membri dei casati patrizi, nei palazzi cittadini e nei castelli e nelle ville del contado.
Nella nuova capitale d’Italia la cattedrale non aveva facciata. Quella antica era stata demolita nel 1587 per sostituirgliene un’altra che non era mai stata costruita. È senza dubbio ambiguo il significato della corsa al rinnovamento del volto dell’antico Duomo, corsa che si tradusse in una cascata di progetti e in una febbrile raccolta di fondi: da una parte era un messaggio che il vecchio mondo fiorentino senza dubbio inviava alla Chiesa, un messaggio di filiale fedeltà nonostante gli eventi avessero maturato dopo il ’48, e poi ancora dopo il ’60, una tensione crescente tra fautori dell’unità d’Italia e Vaticano; dall’altra però era un manifesto dell’altra Firenze, quella laicista e massonica, che nel rinnovamento della «sua» cattedrale scorgeva una sfida a Roma e la riaffermazione di un’indipendenza anche spirituale e religiosa connessa con l’avvenuta unità del paese. Sta di fatto che; quando nel 1871 si avviarono i lavori di edificazione della nuova facciata in stile neo gotico-composito, secondo il progetto di Emanuele de Fabris, al tradizionale bicromatismo di marmi bianchi e verdi, fin dall’XI secolo caro al mondo toscano (da Lucca e da Pisa attraverso Pistoia sino a Prato e a Firenze), si preferì un esteticamente parlando discutibile tricromatismo di marmi bianco-rosso-verdi, che fasciava la cattedrale dei colori d’una bandiera nazionale d’origine giacobina, d’una bandiera appartenente a uno stato i capi del quale il pontefice aveva di fresco scomunicato. La battaglia politica si conduce sempre anche a colpi di simboli. E, nonostante il tricolore marmoreo e il fatto che la nuova facciata assurgesse con esso ai fasti della rivendicazione cittadina e nazionale contro la Chiesa «reazionaria» di Pio IX, alcuni si rifiutarono di partecipare alla relativa sottoscrizione perché parve loro che, in un modo o nell’altro, contribuire ai lavori per una cattedrale equivalesse a dar «soldi ai preti». Ragionava cosi, tra gli altri, il vecchio Giuseppe Verdi.
Poi arrivarono il 20 settembre 1870: Napoleone III, l’ultimo grande protettore dello stato della Chiesa – Francesco Giuseppe d’Austria, dopo la batosta del ’66 e incalzato dal suo burbero nuovo alleato principe di Bismarck, si era defilato – era stato battuto a Sedan e di lì a poco la Francia sarebbe stata costretta a disfarsi anche del suo cospicuo pacchetto azionario di Suez a vantaggio di Sua Maestà Britannica, prossima a spiccare il volo imperiale verso l’India; ora, finalmente, la via per Roma era aperta; nelle Logge di Gran Bretagna e d’Italia si esultava. Ora, l’Italia finalmente unita poteva ambire alla sua «vera» capitale: o a quella che molti ritenevano tale (quando non si sa la storia, l’uso della storia trionfa).
Il tempo di Firenze capitale passò presto, lasciando in molti la bocca amara e la vaga sensazione d’un tradimento. Era davvero valsa la pena di tanti sforzi, di tante distruzioni, di tanti capitali impiegati, di tanto lavoro rapidamente e talora forse avventatamente eseguito, per appena un lustro di gloria regia, parlamentare e ministeriale? Erano però in tanti ad averci guadagnato; e comunque, nel bene e nel male, lo svecchiamento era stato drastico. La nuova Firenze era nata: anche se la vecchia, in fondo, era pur sempre là, con qualche sventramento e qualche ammodernamento. Sarebbe potuta andar peggio. Forse. E, mentre Sua Maestà il re d’Italia lasciava Palazzo Pitti, a tirar un sospiro di sollievo furono in parecchi.