Toscana
Prato, i nuovi schiavi cinesi
Nel rogo di un capannone della zona del Macrolotto, alla periferia della città, si contano sette operai cinesi morti – cinque uomini e due donne, due feriti in gravi condizioni, due lievi e un numero di dispersi che a lungo è rimasto incerto (il numero preciso degli occupanti non era infatti noto). Un bilancio reso definitivo dopo una notte di lavoro da parte dei vigili del fuoco. Per ora è stato possibile dare un nome solo a due morti. Si tratta di un uomo immigrato non regolare, il primo ad essere trovato dai soccorritori, e di una donna che è stata riconosciuta dal marito grazie a una catenina.
La fabbrica che ha preso fuoco è una dei tanti capannoni-dormitorio cinesi «pronto moda» della periferia pratese (4mila aziende censite): qui, lavorano, spesso con orari inumani, dormono, mangiano, vivono in condizioni inaccettabili migliaia di operai cinesi arrivati in Italia chissà come, spesso per fermarsi qui pochi anni così da mettere su una cifra che consenta una vita migliore al rientro in patria.
Pare che le fiamme siano partite da una cucina di fortuna. La maggior parte degli occupanti del capannone sono stati colti dalle fiamme nel sonno, all’interno dei loculi di cartongesso dove dormivano. Chi ha potuto e non ha trovato le uscite ostruite dagli stracci e dal materiale delle lavorazioni tessili, è fuggito in pigiama. I vigili del fuoco, arrivati sul posto con numerose squadre, hanno spento le fiamme e incominciato una conta dei cadaveri che con le ore ha assunto connotati sempre peggiori. Fra le storie, quella di un bambino di appena quattro anni, anche lui nel capannone, salvato dalla madre poi ricoverata al Nuovo Ospedale di Prato dove poi il bimbo le è stato riaffidato. O ancora la storia del volontario dell’associazione carabinieri in congedo che ha dato l’allarme e si è precipitato nel capannone in fiamme riuscendo a portare in salvo due persone.
Subito dopo la tragedia si sono levate, ancora una volta, forti, le parole del vescovo Franco Agostinelli. E anche don Francesco Saverio Wang, cappellano della comunità cattolica cinese di Prato esprime tutto il suo sgomento: «Queste condizioni non sono giuste. I cinesi non possono mangiare e dormire in fabbrica. Forse gli orientali non conosco le norme sulla sicurezza e io lo vedo spesso nei capannoni che vado a visitare: molte volte si tengono combustibili in luoghi dove non ci sono strumenti antincendio e spesso i cancelli delle ditte vengono chiusi dall’esterno per evitare i controlli in fabbrica da parte della polizia».
Già da tempo vengono effettuati controlli e blitz nei capannoni, congiunti fra forze dell’ordine, vigili urbani, ispettori Asl e del lavoro (il giorno dopo la tragedia è stato sequestrato un capannone, ad esempio). Un lavoro impegnativo che richiede molti uomini, che non sempre in periodo di tagli ci sono. E mentre ci si interroga se la strategia della repressione sia l’unica strada percorribile, parte anche il gioco dello scaricabarile. Intanto qualcuno ha messo un mazzo di fiori davanti al capannone della morte. «Vittime del buonismo», ci ha scritto.