Opinioni & Commenti
Una nuova capacità creativa per uscire dalla crisi infinita
Distruzione creatrice. Questa è la notissima espressione che troviamo al centro dell’idea di concorrenza del grande economista austriaco J.A. Schumpeter. Il mercato crea e distrugge. Ma, e lo vediamo tutti i giorni, il mercato non crea e distrugge simultaneamente, negli stessi luoghi, negli stessi modi.
Oggi la globalizzazione economica sta creando opportunità in Cina, in India, in Bulgaria. Meno in Europa e in Italia, dove invece la concorrenza mostra tutta la sua forza distruttrice e non quella creatrice (o non ne mostra abbastanza). Al di là della retorica di tutti i governi sulla «fine della crisi», chi osserva il Paese reale sa che la crisi non è finita.
Le imprese continuano a chiudere, i lavoratori a perdere il lavoro, e troppe famiglie a soffrire. Dietro un lavoro perso c’è una situazione finanziaria che si aggrava, un mutuo iniziato pensando di avere lavoro e che poi deve essere affrontato senza lo stipendio che si credeva di avere.
Il lavoro non è un contratto come gli altri, non è una merce; è la precondizione di tutti i contratti, di tutte le merci che servono ad una persona e ad una famiglia. E quando non si lavora più, è la fioritura umana di una persona che va in crisi, non solo la sua economia. Non a caso abbiamo messo il lavoro a fondamento della nostra Costituzione, perché il lavoro è la vita della gente. E allora una società non deve e non può considerare il lavoro come una faccenda da far gestire dal solo mercato. Il mercato non basta mai, ma non basta assolutamente nel lavoro.
Nel «mercato» del lavoro (non dimentichiamo mai di scriverlo tra virgolette) le parti non sono sullo stesso piano di potere e di forza. Il lavoratore, ad esempio, non può licenziare il datore di lavoro, e servono molte mediazioni, a cominciare dalla politica. Ma l’ideologia liberista dominante in tutto il mondo in nome del libero mercato (chi lo ha visto?) sta drasticamente riducendo le mediazioni non di mercato nelle crisi e nelle vertenze aziendali.
A ciò si aggiunge la fragilità di molte imprese, che sono spesso anch’esse vittime di una economia fragile e incerta. Non è raro che la crisi aziendale sia oggi un rapporto tra più soggetti fragili, lavoratori soprattutto, ma anche le imprese, che a volte sono filiali di multinazionali dove i manager sono sottoposti a forti pressioni di padroni invisibili e lontanissimi. Dobbiamo reinventarci politiche industriali nuove, in un mondo che è cambiato. Ora la politica è lontana e confusa, le imprese liquide e i sindacati non bastano più, hanno troppo spesso categorie del XX secolo che fanno fatica a gestire le nuove crisi del XXI.
C’è bisogno, subito, di un nuovo patto sociale ed economico tra lavoratori, imprese, sindacati, politica, società civile, che parta dalla consapevolezza che siamo tutti più fragili di qualche decennio fa, che la crisi del 2008 ha davvero spezzato l’equilibrio del sistema e non siamo ancora riusciti a ricrearne uno nuovo. È finito un mondo, e il mondo nuovo richiede nuovi strumenti.
Le vertenze, i tavoli, non sono più adeguati, sono lingue ormai morte che non parlano più, o parlano male e poco. Occorre più creatività, e occorre un pensiero non ideologico che non porti a guardare i datori di lavoro come «padroni» cattivi e sfruttatori, e, dall’altra parte, che non guardi i lavoratori come pigri e fannulloni. Più rispetto e stima reciproci. Ma soprattutto serve più capacità creativa, in tutti.
L’innovazione, oggi, non è più una prerogativa degli imprenditori. Anche i lavoratori devono innovare, provare e osare di più. In queste «distruzioni» c’è bisogno di più capacità «creativa».