Cultura & Società
Antonio Martini a 200 anni dalla morte
Antonio Martini nasce a Prato da Giuseppe Martini e Maria Bartoli il 25 settembre 1721. Dopo i primi studi a Prato, nella scuola della Comunità e come «esterno» nel collegio «Cicognini», si trasferisce a Pisa per frequentarvi l’Università dove si laurea in utroque iure nel 1748. Il 18 settembre 1745 veniva ordinato sacerdote dal vescovo di Pistoia e Prato mons. Federigo Alamanni. Nel 1747 pubblicò a Lucca la sua Prolusione come lettore straordinario di diritto canonico dal titolo: De episcoporum potestate in ecclesiasticam disciplinam et in ecclesiasticorum hominum iudicia. A Pisa Martini partecipava alle attività di una piccola «accademia», come si diceva allora, animata da Angelo Maria Bandini e da Carlo Antonio Giuliani, referenti pisani dell’erudito Giovanni Lami, ovvero ad un ambiente aperto alle istanze critiche della moderna scienza filologica.
E fu grazie a Giovanni Lami ed al marchese Antonio Niccolini, figure di spicco della cultura toscana del XVIII secolo, che Martini ottenne il suo primo impiego: quello di rettore del collegio ecclesiastico di Superga, presso Torino, in quello che per la corona sabauda doveva essere una «fucina» di futuri vescovi. Un ruolo delicato che Martini ricoprirà per ben quindici anni, dal 1751 al 1765, ampliando, tra le altre cose, la biblioteca con un ingente investimento finanziario.
In Piemonte Martini acquista la stima dei suoi diretti superiori: il cardinale Carlo Vittorio Amedeo Delle Lanze, figura di primo piano del giansenismo italiano, ed il conte Carlo Luigi Caissotti, gran cancelliere e ministro di Stato.
Nel 1757 Benedetto XIV ordinava al Sant’Uffizio di pubblicare un decreto che annullasse il divieto di leggere la Bibbia in italiano. E proprio al cardinale Delle Lanze si sarebbe rivolto il papa per sollecitare una traduzione della Sacra Scrittura e, a sua volta, il cardinale pensò al Martini. Tra il 1769 ed il 1781 uscivano i volumi del Nuovo Testamento e nel 1781 sarebbe terminata la pubblicazione del Vecchio. L’edizione del Martini, con testo latino a fronte, introduzioni storiche ed annotazioni tratte dalla letteratura patristica, era destinata al successo. Subito stampata in varie edizioni sarebbe stata utilizzata fino alla prima metà del Novecento.
Terminata l’opera, in segno di riconoscenza, il re di Sardegna Vittorio Amedeo III volle Martini vescovo di Bobbio. Mentre si recava a Roma per la consacrazione volle rendere omaggio al granduca di Toscana Pietro Leopoldo che colpito dalla personalità dell’ecclesiastico pratese lo volle alla guida della diocesi fiorentina, rimasta vacante per la morte di mons. Francesco Gaetano Incontri.
Ma quali le ragioni di una nomina che appare improvvisa e non meditata? Innanzitutto la fama che Martini godeva di uomo di grande dottrina, di costumi severi; traduttore apprezzato della Bibbia, di tendenza agostinista ed antiprobabilista in morale. Si dovevano alla sua penna le note ad una fortunata opera di mons. Incontri, il Trattato delle azioni umane (Torino, 1759), esempio di quel rigorismo morale antitetico al «lassismo» di certa letteratura gesuitica. E Martini si era infine dimostrato sensibile alle istanze della «pietà illuminata», lontana dagli eccessi della pietà barocca, con il piccolo Trattato dell’increuento sacrifizio della messa (Torino, 1779).
Pietro Leopoldo credette dunque di trovare un valido collaboratore nell’opera di riforma della Chiesa toscana. Un riformismo che si dispiegò sia sul versante delle istituzioni (parrocchie, monasteri, compagnie laicali, seminari, ecc.) sia su quello del «vissuto religioso». Le riforme misero l’episcopato toscano nella difficile situazione di scegliere tra l’obbedienza al trono e la fedeltà alla cattedra del papa. Antonio Martini si trovò a dover rispondere, lui che in giovinezza aveva in mente di scrivere un’«opera grande» sulla concordia tra «sacerdozio e impero», a questo lacerante aut-aut. Il rapporto tra Martini e Pietro Leopoldo percorse una parabola: dall’iniziale sintonia ad una crescente differenziazione di posizioni per concludersi poi, nell’Assemblea dei vescovi del 1787, in un aspro scontro.
L’arcivescovo non fu né un funzionario asservito alla cattedra di Pietro, né un pastore ciecamente prono ai voleri del trono di Cesare. Convinto dell’esigenza di una riforma ecclesiale, condotta sulla base di una prudente acquisizione delle tesi muratoriane e di una parziale condivisione delle concezioni di una moderata Aufklärung cattolica, si sforzò di metterla in atto gradualmente. Qui si colgono le differenze con il confratello insediato a Pistoia, Scipione de’ Ricci: pur senza avversarne in linea di principio l’istanza riformistica, era contrario al suo radicalismo e alle sue impazienze. Nella mentalità dell’arcivescovo cardini fissi restavano la fedeltà giurata al papa e l’obbedienza dovuta al principe, seppur secondo quella priorità riservata al fine soprannaturale su quello temporale che era dottrina comune dall’età post-tridentina; ma un altro punto era in essa altrettanto fermo: in materia ecclesiastica la responsabilità primaria spettava al vescovo, il quale era dotato di un autonomo potere di governo non delegabile all’autorità civile né, almeno in linea generale, alla curia romana. Alla luce di questa linea, portata avanti con costanza in una contingenza storica che la rendeva difficilmente praticabile, si spiegano le contrapposte interpretazioni del suo episcopato che furono fatte circolare dai diversi «partiti» presenti nel clero fiorentino e toscano: se agli occhi dei «ricciani» Martini poteva apparire l’uomo di Roma in quanto rifiutava di dare esecuzione a riforme volute dal principe (ma da lui ritenute improponibili o intempestive), agli occhi degli «zelanti» risultava pericolosamente incline, attraverso l’introduzione di alcune trasformazioni ecclesiastiche, a cedere ad uno spirito dei tempi che doveva a loro avviso essere soltanto combattuto rinserrando le fila dei fedeli attorno al soglio pontificio.
Il 1781, anno della nomina di Antonio Martini ad arcivescovo di Firenze, vede anche il completamento della sua traduzione della Bibbia dal latino della Vulgata all’italiano: tutti possono così leggere la Parola di Dio. Questa versione, l’unica in quei tempi integralmente in italiano e riconosciuta come testo della nostra lingua dal vocabolario della Crusca, ebbe numerose edizioni fino a quella del 1907, pubblicata in due grossi volumi. La traduzione si distingue per lo stile chiaro e accattivante, per alcune note significative, per i contenuti teologici, tra i quali emerge un’accentuata lettura messianica dei testi: tra essi spicca il «libro dell’Emmanuele» di Isaia 7-11.
Questi capitoli racchiudono tre passi, i quali, secondo Martini, parlano direttamente del Bambino Gesù e di sua Madre, la giovane vergine Maria. «Il Signore stesso vi darà un segno: ecco una vergine concepirà e partorirà un figliolo e il nome di lui sarà chiamato Emmanuele» (7,14). La versione accentua poi i titoli di questo bambino «nato per noi, dato a noi [definendolo] l’Ammirabile, il Consigliere, Dio, il Forte, il Padre del secolo futuro, il Principe della pace» (9,6). Il riferimento diretto a Gesù Cristo di questi appellativi è sostenuto da Martini con un testo di San Bernardo. “Gesù è Ammirabile nella sua nascita, è Consigliere con la sua predicazione, è Dio nelle sue opere, Forte nei suoi patimenti, Padre dell’eternità per la sua resurrezione, Principe della pace per l’eterna felicità” (II, p.158, nota 4). In Is 11,1-10 poi il traduttore evidenzia la messianicità del personaggio discendente dal padre di David (Jesse), ripieno dallo Spirito delle molteplicità («sette») dei suoi doni: perfino «il sepolcro di lui sarà glorioso». Segue questo commento del testo. «Profezia della conversione dei Gentili e degli idolatri, che verranno a Gesù Cristo da tutte le parti, appena egli avrà innalzato tra le nazioni lo stendardo della croce, il quale essendo stato alla sua morte lo strumento dei suoi dolori e della sua ignominia, diverrà in appresso quello della sua gloria e della sua potenza» (II, p.162, nota 2). In questa linea spiega anche Is 12,4 «attingerete con gioia acque dalle fonti del Salvatore» nel modo seguente: «Gesù è la sorgente della misericordia, le fontane della salute sono i sacramenti» (II, p.162, nota 1).
Questo flash esige due osservazioni. La traduzione, innanzitutto, più che una lettura è spesso una rilettura del testo isaiano partendo dalla pienezza di Cristo: essa rischia di offuscare il senso inteso dall’autore sacro e di non far emergere la gradualità della rivelazione. Così, per esempio, Isaia 7 comunica al re Acaz l’assicurazione del Signore che i due eserciti di Damasco e Samaria assedianti Gerusalemme non la espugneranno. Segno e prova di ciò è che la ‘almah, la moglie incinta del re Acaz avrà un figlio, Ezechia, e in breve tempo (prima che il bimbo impari a scegliere il bene e rigettare il male) gli assalitori si ritireranno dalla città santa. Il testo poi è citato da Matteo dopo il racconto della nascita di Gesù. «Tutto questo è avvenuto perché si compisse (plerothe) ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta» (Mt 1,22-23). L’evangelista non fa riferimento ad Isaia per sostenere la verginità di Maria (l’ha già detto due volte, in Mt 1,16.18), ma per dare «compimento» all’oracolo del profeta di cui svela un senso più profondo. Come Ezechia cioè nascendo in un momento critico fu segno di salvezza per un piccolo popolo, così e tanto più Gesù sarà segno di salvezza per tutti i popoli. Infine pur apprezzando la versione della Vulgata è preferibile tradurre soprattutto (praesertim) dai testi originali, come esorta a fare il concilio Vaticano Secondo (Dei Verbum, 22).
Quelle importanti traduzioni della Bibbia dal latino all’italiano
1776-1781: Vecchio Testamento secondo la volgata tradotto in lingua italiana e con annotazioni dichiarato, Torino, nella stamperia reale, 17 volumi in 8°.
C. 1779-1782: edizione fiorentina fatta per l’Allegrini con le note compendiate dal proposto Marco Lastri; cinque tomi del Nuovo Testamento e undici del Vecchio, ma non andò oltre il libro della Sapienza, perché fu interrotta al momento della venuta a Firenze del Martini.
1788-1792: Nuovo Testamento del Signor nostro Gesu Cristo secondo la Volgata tradotto in lingua italiana e con annotazioni dichiarato dall’illustriss. e reverendiss. monsignore Antonio Martini arcivescovo di Firenze, Firenze, nella stamperia arcivescovile, (a spese di Gaetano Cambiagi e Francesco Moucke), 6 volumi in 8°.
Altre edizioni furono fatte a Roma, Venezia e Napoli. Da segnalare l’edizione ottocentesca pratese: 1827-1832: Vecchio e Nuovo Testamento secondo la Volgata, tradotto in lingua italiana e con annotazioni dichiarato da monsignore Antonio Martini arcivescovo di Firenze, con incisioni di Francesco Nenci, Prato per i fratelli Giachetti, 26 volumi per il Vecchio Testamento e 6 volumi per il Nuovo.