Opinioni & Commenti
Il volto migliore di una passione: la promozione sportiva
Il guaio è che abbiamo un gran bisogno di sogni. E sì, anche di eroi. Abbiamo bisogno di consegnare il nostro cuore a qualcuno o a qualcosa. Eppure, a ogni nuovo episodio di idiozia, di violenza mormori: adesso basta, non guardo più una partita di calcio, non vado più allo stadio, no e poi no. Ma poi ti domandi: è giusto? Perché consegnare la tua squadra e il calcio a una banda di deficienti? Perché rinunciare a soffrire e gioire, perché perdere un affetto, uno dei pochissimi – sia detto senza ironia – che durano per sempre, perché il tifoso non cambia squadra, non divorzia mai? Non cantiamo forse: «You’ll Never Walk Alone», non camminerete mai da soli perché noi saremo sempre al vostro fianco, nella buona e nella cattiva sorte?
Dopo che allo stadio Olimpico di Torino, durante il derby, una bomba carta ha mandato all’ospedale dei tifosi (poteva andare molto peggio), questi pensieri si riaffacciano alla mente. Sempre gli stessi, come dopo la morte del tifoso napoletano l’anno scorso a Roma, poco prima della finale di Coppa Italia; dopo i periodici episodi violenti, ma soprattutto idioti, che colpiscono il calcio come un tumore impossibile da estirpare.
A chi mormora scuotendo il capo: «Ma come si fa ad appassionarsi per quattro tipi che corrono in mutande dietro a un pallone? Come si fa a perdere la testa al punto da ammazzarsi?» è facile dare ragione. Loro sì sono ragionevolissimi. Loro sì avranno sicuramente le loro passioni assai ragionevoli, anche se una passione autentica di ragionevole ha sempre ben poco. Vale per il calcio, che è un gioco dalla forte componente atletica, e vale per lo sport in generale, come quello del Centro sportivo italiano (Csi) che in questi giorni a Firenze celebra la sua festa regionale mostrando il volto migliore, quello della promozione sportiva, della competizione mai esasperata, del «giocano tutti, anche quelli scarsi». Lo sport come festa, lo sport capace di liberare le energie del corpo e della mente. Ci fu, in un passato neppure troppo lontano, chi sconsigliava l’attività fisica perché poco salubre. Chi disdegnava ogni genere di gioco, perché distraente dalle vere attività nobili: al massimo era tollerato come «ricreazione», per meglio predisporsi alla sana fatica del lavoro e dello studio.
Ma, a pensarci bene, non vi sorge il dubbio che noi siamo fatti per giocare, non per lavorare? E che lavoriamo per poter avere tempo libero per lo sport e il gioco, non viceversa? Intendiamoci, attraverso il lavoro ci realizziamo… non tutti purtroppo, ma l’aspirazione è quella. Proviamo gioia davanti a un lavoro ben fatto. Ma anche e soprattutto correndo, saltando e andando in bici, sciando e pattinando. E anche davanti a una partita di pallone, meglio allo stadio, ma pure in tv. Il calcio è un formidabile educatore alle emozioni. Il cuore va allenato. Gioia, paura, trepidazione, sollievo, dolore e ancora gioia. Di questo è fatta una partita. Un vero appassionato di calcio non avrà mai, giovane o adulto, un cuore anestetizzato, incapace di provare emozioni, quindi inerte anche di fronte agli orrori più indicibili, quindi incapace di pietà e compassione e solidarietà.
Poi, un giorno, riusciremo a cacciare i violenti che non amano il calcio, che non cantano «cammineremo sempre assieme» perché sono un branco di individualisti dal cuore arido. Riusciremo, perché è assurdo che alcuni idioti lancino una bomba dalla curva, sicuramente vengono visti da dozzine di spettatori che però non li denunciano… Forse il virus è assai diffuso e il bisturi va affondato nella pancia malata dove il branco, come un tumore, prospera. (L’esempio suonerà bislacco, ma una cosa analoga è accaduta a Milano con i No Expo: hanno visto benissimo i black bloc mescolati a loro, ma non li hanno né allontanati né denunciati).
Intanto possiamo fare sport, con felice leggerezza, con il Csi. E non smettere di guardare il calcio, se ci fa palpitare il cuore. Non diamogliela vinta: non sarebbe sportivo. E abbandoneremmo la nostra squadra nelle grinfie degli stupratori: «You’ll Never Walk Alone». Arrendersi, mai!