Opinioni & Commenti

«Quantitative easing»: Draghi, la Cancelliera e l’«innaffiatoio» di Keynes

La politica economica, un’arte più che una scienza esatta, è ispirata da quanto succede nel tempo breve. La ripresa economica guidata da Barak Obama e l’orientamento della Bce di Draghi hanno contribuito a cambiare la traiettoria terapeutica immaginata per curare la crisi europea attuale.

La crisi dell’economia europea dei nostri giorni ha questo di particolare, che si ripresenta negli stessi termini del 1947 nel dopoguerra italiano. La scala sarà pure cambiata, ma il dilemma è rimasto lo stesso: crescita oppure austerità. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole, lamentava Salomone nell’Ecclesiaste: la storia economica, dopo un balletto di sessant’anni, ci riconduce allo stesso giro di valzer.

L’impostazione politico-economica della Cancelliera non è del tutto estranea alla nostra storia economica nazionale. Essa ha un nome difficile da tenere a mente. Si chiama «monetarismo deflattivo» e funziona così: se gli investimenti privati che spingono la crescita sono scoraggiati da uno stato spendaccione, il quale assorbe tutto il risparmio dei privati con le imposte e il debito pubblico, allora gli investimenti assomigliano a una pianta che non è innaffiata da quel proprietario che beva tutta l’acqua disponibile per mantenere in vita se stesso. Che freni la sua sete, rieduchiamolo dunque, e la pianta rifiorirà!

Keynes la pensava diversamente. Rieducare il proprietario sarebbe bello, ma il tempo non ci favorisce: è meglio trovare subito acqua aggiuntiva e annaffiare subito la pianta, perché le foglie che cadono seminano intorno al suo fusto il marciume dell’odio sociale.Luigi Einaudi, il grande economista che De Gasperi mise al comando dell’economia italiana nel secondo dopoguerra, la pensava come la Cancelliera, ma non ebbe successo e i keynesiani che lo sostituirono adoperarono senza pensarci due volte, un capace innaffiatoio. L’Italia si rialzò e fu in grado di stupire il mondo con il boom economico di fine anni Cinquanta.

Per venire ai nostri giorni, la legge sulle mansioni (conosciuta come Job’s act) adottata dal governo attuale non è sconosciuta alla letteratura economica. Deriva dalle riflessioni di Tinbergen, un economista che negli anni Trenta si accorse di un fatto singolare: la classe operaia si era spaccata in due tronconi. Quella protetta dai sindacati e quella non protetta da nessuno, i sottoccupati. Il suo motto è presto detto: la classe operaia è quella sofferente, ma le sofferenze non sono equamente distribuite al suo interno. Che almeno fra gli ultimi ci sia l’uguaglianza delle condizioni! E poiché l’eguaglianza fra gli ultimi dipende dalla perdita di modernità di certe mansioni, spetta allo stato riqualificare quelle dei sottoccupati. E se il sindacato, preoccupato dei soli suo iscritti, si oppone da monopolista dell’offerta di lavoro, il sindacato deve cambiare politica.Tutto qui.

La moderazione salariale, d’altra parte, non appartiene alla cultura del nostro mondo sindacale. Il linguaggio della «politica dei redditi» è sempre stato blasfemo ai suoi orecchi. Federico Caffè, il famoso economista scomparso drammaticamente nel 1987, lo propose alla Cgil, come consulente, ma non ottenne risposta e rimase deluso. Stessa sorte è toccata a Giuliano Poletti, ministro del lavoro del governo Renzi.

Anche i sindacati possono soffrire di miopia, qualche volta di cataratta. I popoli non sono da meno. Al pari dei singoli, anche i popoli hanno la loro memoria: non soltanto dei periodi felici, ma anche (e soprattutto) di quelli infelici. Pare che le paure lascino nei loro ricordi tracce ancor più profonde dei periodi di relativo benessere. L’inflazione e il debito pubblico sono tuttora presenti nella memoria tedesca come uno spettro mostruoso dai tempi della repubblica di Weimar. Nessun psicanalista dei popoli (ammesso che ve ne siano) è mai riuscito a far dimenticare al paziente il suo trauma infantile.

Per l’Italia le cose andarono diversamente: nell’immediato dopoguerra la spesa pubblica finanziata da un debito crescente ci salvò dalla «ira dei poveri» e costituì un potente elemento di pacificazione sociale. La spending review imposta dalla Cancelliera all’Europa sarebbe cosa buona e giusta, sì, ma senza ossessivi patemi. E ciò spiega, almeno in parte, gli attriti fra i due popoli e fra le loro rispettive classi dirigenti. È notizia recente l’approvazione del Quantitative easing da parte della Bce guidata da Mario Draghi.

Quantitative easing, altra espressione misteriosa per il lettore di media cultura economica. In cosa consiste? Il fatto è molto semplice: il governatore della Bce ha girato, nella serra dell’economia europea, la manopola dell’irrigazione a pioggia; l’acqua innaffierà le banche le quali, a loro volta, innaffieranno le imprese; i prezzi saliranno un poco e gli imprenditori cominceranno a investire di nuovo. L’Euro si svaluterà rispetto al dollaro e le esportazioni europee faranno un gran passo in avanti. La strategia della Cancelliera Merkel (la rieducazione dei governi spendaccioni alla virtù) è stata clamorosamente smentita da un economista italiano.

Quantitative easing: aumentare la quantità degli euro (quantitativity) in circolo aiuterà (easing) l’economia continentale a risorgere. Le ceneri del grande Keynes avranno un sussulto di nuova vitalità intellettuale, mentre quelle di chi pensava, come Marx, al crollo del capitalismo e allo spalancarsi dell’eden comunista ricadranno ancora una volta nell’oblio. La politica, ci ricorda uno scomodo prete fiorentino (don Milani), è uscire insieme dalle comuni difficoltà. La ricetta tedesca della conversione degli spendaccioni e quella dell’innaffiatoio, da sempre contrapposte, potranno forse trovare in un’Europa sempre più minacciata dall’esterno, una sintesi teoricamente improbabile, ma praticamente necessaria.