Opinioni & Commenti
Troppa carne al fuoco, anche per uno come Matteo
I sostenitori di piatti di cucina politica mai serviti prima. Forse, per rimanere dentro le metafore culinarie, il giudizio meno lontano dalla verità è quello di troppa carne messa al fuoco anche se la fiamma che c’è sotto vuole essere molto vivace.
Cominciamo dai risultati positivi delle riforme che sono state già fatte e di quelle che si sta per «portare a casa» secondo un modo di dire tipicamente «renziano». Nella primavera scorsa sono state abolite le province anche se c’è ancora da sistemare ventimila loro dipendenti. Dopo il sì del Senato e della Camera e il ritorno del testo alla Camera alta per una nuova lettura in questo mese dovrebbe nascere il nuovo Senato con un profilo che somiglia tanto e in maniera strepitosa all’idea di Senato che i democristiani sostennero alla Costituente (Costantino Mortati propose un Senato per due terzi eletto dalle assemblee regionali). Cosi finirà il cosiddetto bicameralismo perfetto anche se la promessa di Renzi «rottamatore» di volere dimezzare i parlamentari si contenta solo di ridurli da 950 a 730 con la limitazione del nuovo Senato a soli cento membri mentre non si parla più del limite dei mandati parlamentari a tre legislature.
A gennaio dovrebbe arrivare in porto anche la riforma elettorale già approvata dal Senato con la reintroduzione delle preferenze secondo quanto già promesso. È stata approvata anche la riforma di quella riforma dell’articolo V della Costituzione che fu voluta da un governo di centro-sinistra quindici anni fa. Il nuovo articolo V, attribuendo allo Stato il potere di decidere le competenze fra Stato e Regioni, dovrebbe ridurre il caos provocato dalla precedente riforma. È stato abolito anche se gradualmente il finanziamento pubblico ai partiti con una riduzione del 25% nel 2014, del 50% nel 2015, del 25% nel 2016 e con la previsione della deduzione fiscale per chi vorrà versare contributi alle forze politiche messe a dieta.
Sul piano delle misure economiche sono stati concessi i famosi ottanta euro in più in busta paga anche se il provvedimento non sembra che abbia aumentato i consumi come si pensava. Anche la possibilità concessa di mettere subito in busta paga la liquidazione con un possibile aumento di altri circa cento euro mensili sembra che sarà scelta da pochi per le ripercussioni che si possono avere sulla futura pensione. A partire dal primo gennaio sarà ridotta alle imprese pure la famigerata tassa dell’Irap anche se non nella misura del 10% generale promesso all’inizio, ma solo per quanto riguarda l’imposizione sui lavoratori dell’azienda con un risparmio di circa settecento euro annuali per ogni dipendente.
Bisogna ammettere che Renzi ha lottato costantemente e accanitamente nei confronti della Unione Europea per cercare di ottenere un minimo di flessibilità nei conti pubblici in modo da potere rilanciare investimenti e occupazione. Tuttavia su questo piano, al di là della buona volontà, i risultati di colui che per sei mesi ha avuto la presidenza dell’Unione Europea sono stati piuttosto deludenti. L’Italia non solo non ha potuto sfondare il famoso 3% di deficit, ma ha dovuto ridurlo su pressione di Bruxelles dal 2,9 proposto al 2,7 imposto. Anche se non rinuncia alla sua battaglia, Renzi può al momento vantare solo di avere ottenuto che la quota italiana dei 315 miliardi di investimenti promessi dal presidente della Commissione europea Juncker siano esclusi dai calcoli di quel tre per cento.
Così, nella impossibilità di attuare investimenti pubblici, Renzi punta tutto sulla possibilità di attirare investimenti privati. E per sedurre imprenditori italiani e stranieri, Renzi mette nel piatto i prodotti della sua cucina: la quasi abolizione dell’articolo 18, con una maggiore libertà di licenziamento, l’azzeramento per i primi tre anni dei contributi previdenziali dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, la riduzione dell’Irap per quanto riguarda la parte che grava sul lavoro. Bisogna sperare solo che il cavallo beva, come dicono gli economisti, soprattutto di fronte al problema drammatico di una disoccupazione che non si riduce. Purtroppo finora provvedimenti simili al Jobs Act, presi prima di noi da Grecia, Spagna e Portogallo, non hanno dato grandi risultati sull’aumento dell’occupazione, pur riducendo il costo del lavoro. Oltretutto in Italia sulla via accidentata delle riforme e suoi loro effetti concreti c’è spesso un lasso di tempo di anni fra l’approvazione di una legge e la sua concreta applicazione. Basti pensare che quest’anno era ancora da approvare il trenta del cento dei decreti delegati previsti dalle leggi delega del governo Monti e il 50 per cento dei decreti delegati delle leggi delega del governo Letta.
E comunque bisogna necessariamente e quasi disperatamente scommettere sull’effetto, perfino a fini di crescita e di occupazione, delle riforme anche future, come quelle della giustizia e della burocrazia, soprattutto in considerazione del fatto che l’Italia rimane, unico paese europeo, con un dato negativo del meno 3% nella sua crescita e con una riduzione globale del 9% del suo reddito nazionale dall’inizio di una crisi che ci ha reso quasi tutti più poveri. Se l’effetto riforme fallisce non rimane che contare su effetti esterni come il calo del prezzo del petrolio e la forte ripresa americana e in estrema istanza su influssi scaramantici come il solito stellone dell’Italia.