Opinioni & Commenti

L’intricata vicenda dei marò e la contesa tra Italia e India

Nemmeno la prigionia scontata in albergo e con due vacanze a casa per festeggiare il Natale e poi per votare. Due anni non sono bastati non solo a fare giustizia, ma nemmeno ad inaugurarla. L’India ha rinviato il processo ai due marò ben 26 volte, l’ultima lunedì scorso. L’Italia, che pure si ritiene depositaria del diritto di indagare e giudicare su un fatto accaduto su una nave italiana, non ha condotto nessun processo e neppure nessuna inchiesta ufficiale ed esauriente capace di spiegare veramente l’accaduto.

Il paradosso di questa vicenda è che i marò, anche se ancora non hanno avuto nessun processo, hanno già avuto di fatto la sentenza, anzi, per scialare, due sentenze. Quella dell’Italia per cui sono assolutamente innocenti. Quella dell’India per cui sono assolutamente colpevoli. In questa storia, in cui si giudica non per quanto si sa, ma per dove si sta, secondo le più scontate campagne nazionalistiche di una volta, tutto è chiaro eccetto che la dinamica dei fatti e ognuno dei due paesi racconta il caso non solo con la sua lingua, ma anche con la sua versione nazionale. Per l’Italia, secondo la testimonianza del membri dell’equipaggio, la sparatoria dei due marò sarebbe avvenuta in acque internazionali dove è competente nel giudicare il paese proprietario della nave. Per l’India, che sembra basare la sua tesi su rilevazioni satellitari, gli spari dalla Enrica Laxie su cui si trovavano a bordo i due marò sarebbero partiti nella cosiddetta «zona contigua», un tratto di mare di 22 miglia dalla costa su cui ha giurisdizione il paese rivierasco.

Alla fine secondo le due interpretazioni fatte di asserzioni apodittiche più che di prove ne escono fuori due resoconti dei fatti che, per essere opposti, non sono tuttavia nell’un caso o nell’altro meno inverosimili. Secondo la versione «made in Italy» i due marò avrebbero sparato per difendere una petroliera portacontainer con 34 uomini a bordo da un attacco di pirateria condotto da un peschereccio di undici persone che avrebbero cercato, con una temerarietà pazzesca, di abbordare un mostro del mare alto sull’acqua 23 metri. Secondo la versione «made in India» che accusa invece i due marò di un atto di pirateria sarebbe stata quindi invece la gigantesca Enrica Laxie a voler attaccare il minuscolo natante dei pescatori indiani come se andasse a caccia di pesce fresco oltre che di petrolio.

È probabile ed anche più ragionevole pensare che, come spesso accade in quella zona, fra l’altro poco frequentata da pirati, che il peschereccio indiano, come fanno spesso molte altre barche da pesca, si sia messo sulla rotta della petroliera italiana per allontanarla dal luogo in cui aveva gettato le reti e che i due marò italiani abbiano interpretato male la manovra ed abbiano avuto una reazione affrettata ed eccessiva.

Anche fra i politici italiani più direttamente interessati alla vicenda ci sono state a questo proposito discordanze significative. Secondo le dichiarazioni del nostro ministro della difesa, del nostro ministro degli esteri e dello stesso presidente della repubblica i nostri marò sembrerebbero del tutto innocenti. Il nostro sottosegretario Staffan De Mistura, incaricato di seguire da vicino la vicenda, ha dichiarato invece alla televisione già il 18 maggio di due anni fa che i colpi dei nostri marò «sono andati in direzione sbagliata» e che «i nostri soldati non volevano per questo uccidere, ma sfortunatamente è successo», lasciando intendere che si tratterebbe in sostanza di una sorta di omicidio colposo. Ma una analisi oggettiva dei fatti poteva venire solo da una collaborazione nelle indagini fra italiani e indiani che invece hanno voluto subito dividersi in linea di principio fra innocentisti e colpevolisti.

E al di là delle rare voci che hanno cercato di capire cosa veramente è successo, è soprattutto il nazionalismo che si è scatenato con un ritorno di fiamma che ricorda i tempi più infausti dei conflitti fra le nazioni in base al principio che gli indiani per gli indiani sono innocenti perché sono indiani e gli italiani per gli italiani sono innocenti perché sono italiani. Da questo punto di vista il rischio maggiore viene da parte indiana, dove all’interno del partito nazionalista di Marendra Mody che può vincere le elezioni politiche del maggio prossimo, è stata invocata per i marò italiani anche la pena i morte. Ma anche in Italia in fatto di revival nazionalista non si scherza. Per molti i due marò sono non solo innocenti, ma eroi nazionali e martiri della patria.

Secondo l’onorevole La Russa i due marò devono essere candidati alle prossime elezioni e l’onorevole Margherità Boniver si è offerta di sostituirli come se ci si trovasse di fronte ad ostaggi condannati per rappresaglia in tempo di guerra. Se poi si naviga fra la gente che si fa sentire attraverso il web si possono incontrare perfino le manifestazioni più bieche del nazionalismo del passato. Ormai si scrive che «l’India è un paese di stupratori» secondo lo stereotipo razzista per cui il peggiore di un popolo rappresenta tutti allo stesso modo di quando si dice che «l’Italia è un paese di mafiosi».

C’è poi chi invoca l’espulsione di tutti gli indiani che esistono in Italia e chi ricorda con un filo di nostalgia che «una volta per un fatto del genere ci sarebbe stata la guerra» alludendo alla famosa «politica delle cannoniere» quando nell’Ottocento per esempio, la flotta francese entrava nel porto di Algeri per vendicare il colpo di scacciamosche che il dey del posto aveva dato al console Deval e la flotta inglese entrava nel porto del Pireo perché il console inglese Davide Pacifico non era stato risarcito a sufficienza per certi danni subiti dalla sua casa. I più moderati in fatto di reazioni sono quelli che si contentano di chiedere sanzioni commerciali italiane e europee contro l’India. Evitando però purtroppo di aggiungere che in questo caso sarebbero soprattutto gli italiani e gli europei ad essere puniti perché il nostro interscambio con l’India negli ultimi venti anni è aumentato del 12 per cento ed è anche evidente che, nonostante che l’Europa sia quella a cui più spesso ci si rivolge per chiedere aiuto in questa vicenda, anche il nostro vecchio continente ci segue molto malvolentieri su questo piano, visto che un’Europa che cresce ormai dello zero per cento virgola qualcosa all’anno non può fare a meno dello scambio con un colosso economico come quello indiano che cresce anche del 9 per cento all’anno e che ha nella Germania, nel Belgio, nell’Inghilterra e nell’Italia le nazioni che più esportano verso un mercato di oltre un miliardo di persone.

In realtà il primo errore che è all’origine di tutta questa vicenda fu fatto dal ministro La Russa quando, nel lontano 2005, permise a membri dell’esercito di essere assunti come guardie di navi private che è un po’come mandare i bersaglieri a badare gli sportelli delle banche. Questa situazione paradossale per cui dei soldati sono agli ordini di un capitano di una nave privata ha fatto sì che proprio per decisione di un comandante che non voleva rompere le buone relazioni commerciali con l’India i due marò fossero consegnati alle autorità indiane anche se dal punto di vista giuridico si trovavano su un lembo di territorio italiano e nonostante che il nostro Ministero della difesa l’avesse invitato a non entrare nel porto indiano di Kochi. Più in generale per quel che riguarda il problema della lotta alla pirateria tutto finora è stato fatto con molta improvvisazione e molto egocentrismo da parte dei singoli stati.

Le carte che l’Italia può giocare ora in questa situazione purtroppo non sono molte anche per la nostra oggettiva debolezza sul piano internazionale e perfino sul piano europeo che ormai non ci ascolta molto nemmeno sulla crisi economica e nemmeno in tema di solidarietà in fatto di emigrazione. L’arma più gettonata anche da parte degli esponenti politici in questi ultimi giorni è l’eventuale ritiro dell’Italia da tutte le missioni internazionali di pace. Ma anche qui dovremmo prima domandarci in coscienza se la nostra solidarietà verso dei connazionali deve giungere fino al punto da togliere all’Italia il ruolo più importante di cui oggi può vantarsi in fatto di politica estera e da troncare un contributo al tentativo di riportare la pace in oltre venti zone di crisi nel mondo. Per quanto giustificata da motivi patriottici anche questa sarebbe una rappresaglia di venti per uno.

E tuttavia per essere coerenti e credibili anche in fatto di pressioni non si può far finta di dimenticare un principio fondamentale proprio per noi europei che andiamo in giro a dire anche agli altri che abbiamo inventato la democrazia. In uno stato democratico la magistratura deve essere indipendente e fare pressioni su un esecutivo perché imponga delle decisioni alla propria magistratura non è una bella lezione in fatto di divisione di poteri e di democrazia. L’Unione Europea può semmai ricordare all’India che essa per la sua concezione dei diritti dell’uomo non considera democratico un paese che adotta la pena di morte. In questo senso l’Italia dovrebbe fare sentire la sua voce in sede Onu che dovrebbe essere il luogo deputato per condurre la lotta contro la pirateria, che è l’organismo garante dei diritti a livello mondiale anche con i propri tribunali (anche in tempo di guerra uccidere un prigioniero è un crimine di guerra) e soprattutto la maggiore autorità morale che condanna la pena di morte.