Opinioni & Commenti
Obama e l’illusione di costruire la pace con qualche missile
Nel 1982 Hafed Assad, il padre dell’attuale Bachar Assad, fece irrorare dai suoi aerei l’acido cianidrico sulla città siriana di Hama che si era ribellata: ci furono ventimila morti, ma nessuno parlò di punire il dittatore siriano di allora per una strage spietata. Anzi la maggior parte dei governi ignorarono l’episodio e gli stessi mezzi di comunicazione diedero notizia dell’eccidio con molta avarizia. Oggi invece la notizia più o meno provata che il regime di Assad avrebbe provocato diverse centinaia di morti usando l’arma chimica nella zona di Ghouta sembra capace di provocare un intervento armato internazionale in Siria.
Nel frattempo, è vero, fra la gassazione del padre e la gassazione del figlio, c’è stata la convenzione contro le armi chimiche del 1993 che molti paesi hanno firmato, ma non la Siria e la deliberazione dell’Onu del 2005 che autorizza l’ingerenza umanitaria al fine di proteggere una popolazione che il proprio governo non protegge e che in ogni caso, ammesso che sia applicabile ora e non, ad esempio, un anno fa, ha bisogno di una autorizzazione del Consiglio di sicurezza che al momento è inimmaginabile per l’opposizione di Russia e Cina. Nel frattempo c’è stata anche la nascita della Corte Penale Internazionale contro i governanti che si macchiano di «crimini contro l’umanità» e di cui curiosamente a questo proposito quasi nessuno parla.
In questi casi gli americani in genere preferiscono cavarsela da soli con una bordata di missili da crociera lanciati dalla loro flotta e che non ha nessun costo militare se non quello dei due milioni di dollari che ogni missile costa. Il bombardamento demolisce diversi edifici pubblici, dà un momentaneo sedativo a chi non può subire nulla senza un minimo di vendetta, dedica qualche fuoco di artificio che appare sui teleschermi alla celebrazione del cosiddetto ordine internazionale, ma in genere non converte nessuno e, a parte le macerie, lascia le cose come stanno se non peggio di prima.
Nel 1993 Bill Clinton lanciò 23 missili su Bagdad dopo la scoperta di un tentativo di attentato contro Bush padre senza ottenere nessuna scusa da parte di Saddam Hussein e nel 1998, dopo gli attentati di Al Kaeda in Kenia e in Tanzania, lanciò 75 missili contro il Sudan e l’Afganistan che ospitavano Bin Laden senza per questo prevenire l’attentato alle Torri Gemelle. Quasi certamente è questo tipo d’attacco che il presidente Obama ha in mente da quando sabato scorso ha annunciato che avrebbe colpito la Siria seppure con una curiosa freddezza burocratica dopo la consultazione di un Senato che deve prima godersi tutte le sue ferie.
Ma non c’è dubbio che intorno alla questione delle armi chimiche usate in Libia e già preventivamente e avventatamente definite da Obama «la linea rossa» che avrebbe messo in moto l’Occidente aleggia anche l’ipotesi massimalista di un intervento diretto nella guerra civile siriana come accadde in Libia anche lì con la preoccupazione umanitaria di salvare la popolazione di Bengasi. Ma negli ultimi venti anni non siamo riusciti in nessun posto a portare la pace con la guerra. Dopo un anno di guerra in Somalia, dopo dodici anni in Afganistan, dopo dieci anni in Iraq la guerra ha lasciato sul posto la guerra civile. Persino nel Kossovo, che è l’esempio più citato in questi giorni le sedicimila bombe lanciate sulla Serbia nel 1999, hanno prodotto una «pace», ma non una pacificazione con i serbi divenuti oggi vittime da colpevoli che erano allora. In questi casi se sono utopisti i non violenti che credono che solo i civili possano fare la pace si sono dimostrati intanto utopisti i «realisti» che hanno creduto che la pace potesse essere portata dai militari.
In realtà c’è ancora qualcuno che è schiavo dello schema della seconda guerra mondiale secondo cui la democrazia è solo un popolo meno un dittatore. Ma anche la piega che ormai ha preso quasi dovunque la cosiddetta «primavera araba», in cui ogni vittoria porta solo alla lotta fra i vincitori, ci dice che in questi paesi c’è più da costruire che da distruggere. Il discorso vale anche e soprattutto per la Siria in cui fra i ribelli ci sono nazionalisti puri, sunniti pro Arabia Saudita e sunniti pro Qatar, i curdi che giocano in proprio e i seguaci di Al Qaeda che come le Brigate internazionali durante la guerra di Spagna giungono da ogni parte. In questo caso parlare di «dialogo» non è il convenevole buonista di chi non sa dove mettere le mani, ma l’unico modo per cominciare a riattaccare i cocci di un paese per farne domani davvero una nazione e non solo un campo di battaglia lasciato libero da Assad.