Opinioni & Commenti

Lampedusa: la pochezza della politica di fronte all’appello del Papa

 Niente autorità, sia civili che ecclesiastiche. Niente trionfalismi. E una liturgia con i paramenti di colore viola, appropriati a una cerimonia che voleva essere funebre per i morti e penitenziale per i vivi: «Signore», ha detto Francesco durante l’omelia, «in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo perdono per chi si è accomodato, si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi».

Parole che dicono sia la colpa di cui si deve chiedere perdono, sia i responsabili di essa. Quanto alla prima, il peccato denunciato dal papa non è elencato tra quelli di cui andare a confessarsi, e purtroppo è molto difficile che qualche sacerdote ne chieda conto ai suoi penitenti, ma, pur essendo il più dimenticato, è – in una prospettiva evangelica – il più grave di tutti: l’indifferenza, la mancanza di amore.

Quanto ai secondi, molti hanno sottolineato il riferimento ai potenti della terra. Ed è giusto. Ma Francesco ha anche chiamato in causa «chi si è chiuso nel proprio benessere, che porta all’anestesia del cuore». La gente comune. Gli stessi cristiani. A loro – a noi tutti – ha gridato, in nome di Dio, una verità terribile, che cerchiamo di tenere nascosta, e cioè che, saziati da questa società dove tutto è oggetto da consumare e dove regna il culto dell’effimero, ci siamo abituati a non rispondere più gli uni degli altri, come Caino: «Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Oggi nessuno si sente responsabile di questo, guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino” e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza».

Sì, questo viaggio ci inquieta perché il Papa non è andato a Lampedusa per parlare dei poveri migranti, ma di noi, che poveri crediamo di non esserlo, e invece lo siamo della cosa più preziosa: la nostra umanità. Perché la fuga dalla responsabilità è anche abdicazione alla nostra libertà e, in ultima istanza, alla nostra singolare identità. Nella fretta di nasconderci nella massa anonima – dove, come diceva Heidegger, «ognuno è gli altri e nessuno è se stesso» –, siamo alla fine «senza nome e senza volto»: appunto, «Nessuno».

Davanti a questo messaggio sconvolgente, è risaltata la pochezza dei nostri rappresentanti politici, sia di quelli che hanno creduto di poterlo ridurre alle proprie tesi, sia di chi ha cercato di neutralizzarlo in un aereo spazio spiritualistico. I primi hanno accolto con entusiasmo le conseguenze pratiche che scaturiscono dalla denunzia di Papa Francesco in ordine alla questione dell’immigrazione. Non sembrano essersi accorti, però, che la incapacità di intendere la libertà come solidarietà è imputabile anche a una società dove viene esaltato unilateralmente il diritto di disporre, senza mai doverne rispondere a nessuno, del proprio utero (e del bambino che c’è dentro), di adottare figli senza garantire loro l’indispensabile relazione con la figura materna e paterna, di decidere senza limiti della propria vita e della propria morte. A una società dove la sinistra «zapaterista», che ha fatto sua questa logica «proprietaria», da anni ormai parla solo di «diritti» (i propri), e preferisce sorvolare sui doveri (verso il prossimo). Tranne che quando si tratta di immigrati…

Gli altri, la destra, invece ci sono rimasti proprio male. Nel silenzio generale (anche di buona parte della Chiesa), hanno introdotto e difeso la logica dei «respingimenti», qualche loro ministro ha parlato perfino di prendere a cannonate i barconi, e ora arriva un Papa e dice che quelli sono fratelli da amare e da accogliere! Ma questo è il Vangelo! Mica si può ispirare ad esso la vita sociale e politica! Queste cose vanno bene dentro le chiese, ma fuori sono pericolose utopie che – Dio non voglia! – potrebbero essere strumentalizzate dai «comunisti»! Che il Papa si occupi, invece, dell’inizio e della fine della vita umana – i «valori non negoziabili»! –, lasciando che a tutto ciò che sta in mezzo ci pensi lo Stato, saggiamente ispirato dal pensiero espresso nell’articolo di Magdi Allam su «Il Giornale»: «Sarebbe stato straordinario che la prima visita di Papa Francesco fuori Roma fosse riservata alla sofferenza degli italiani». E invece…

Davanti a queste reazioni, siamo fieri della franchezza evangelica di Papa Francesco. No, non ha voluto dare ragione a una parte politica, ma, ben più alla radice, ricordare a tutti noi che rispondiamo a Dio degli altri, quale che sia il loro colore e la loro nazionalità, sempre e dovunque, e che senza di loro non siamo neppure noi stessi. E questo deve farci mettere in discussione delle leggi che sono in contrasto con questa fraternità, ma, più in profondità, il modo di pensare e di sentire che le ha generate. Insomma, noi stessi. Affinché possiamo convertirci.