Opinioni & Commenti
Province, alla fine il governo scontenta tutti
La più tartassata. Guardando la mappa delle nuove province emersa dal decreto sulle regioni a statuto ordinario, la Toscana sembra proprio essere quella che ci rimette di più. Da noi ne restano solo quattro su 10, il 40%, il dato più basso rispetto a tutte le «consorelle», con una media nazionale (51 contro le precedenti 86) pari al 59%. Avevamo, tanto per dire, il doppio delle province rispetto alla Campania (che all’opposto, ne salva l’80%) e ora ci ritroviamo con lo stesso numero, e così anche nei riguardi della Puglia, che ne contava sei e ne perde solo due. Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto, che ne avevano rispettivamente una, due e addirittura tre in meno rispetto a noi, ne potranno vantare una in più. E anche tutte le regioni che ne contavano solo due (Umbria, Molise e Basilicata), passando a una in termini strettamente percentuali (50%) subiscono un taglio inferiore.
Non mancherebbero quindi le ragioni per essere quantomeno contrariati come cittadini toscani per il trattamento riservatoci. Ma se riusciamo per un attimo a mettere da parte le questioni di campanile che la decisione governativa ha fatalmente attizzato, probabilmente da noi più che altrove, e diamo un’occhiata alla «nuova Toscana» che ne deriva, ci sembra di poter dire che la soluzione non è poi priva di logica e che quantomeno si basa su una ripartizione territoriale più omogenea rispetto alle altre ipotesi emerse, come ha giustamente fatto notare il presidente dell’Uncem Toscana Oreste Giurlani. Una soluzione che, in fin dei conti, era quella prospettata dal presidente della Regione Enrico Rossi, con la sola eccezione della provincia di Arezzo che rimane, anziché essere accorpata con Siena e Grosseto come aveva pensato il governatore. E sopravvive giustamente – unica toscana intonsa, nonostante la diatriba sui 350 mila abitanti superati o meno – perché pensare assieme Sestino e l’Argentario era sinceramente un po’ più arduo che non Pontremoli e l’Elba.
Ha vinto quindi sostanzialmente la linea Rossi, contro le decisione di non decidere della Consulta delle autonomie locali e dello stesso Consiglio Regionale. Che, stretti tra questioni politiche e di campanile, non sono riusciti a decidere ripassando così la palla al governo, anche se – a onor del vero – hanno cercato di muoversi nel rispetto dei paletti romani, quindi considerando la «non accorpabilità» a Firenze, questione che il governatore aveva tranquillamente ignorato. Se poi il capoluogo della nuova grande provincia costiera dovesse alla fine essere Pisa – in omaggio alla possibilità di considerare, nel caso di accorpamento di più di due province, non tanto la popolazione quanto la centralità geografica – si potrebbe dire con una battuta che la vittoria del pisano Rossi sarebbe completa. Prevedere però l’esito del braccio di ferro con Livorno, cioè tra le due città campaniliste per antonomasia, è decisamente prematuro.
Ma chissà se la questione della centralità geografica nel caso di più di due province accorpate non possa in qualche modo risolvere l’altra grande contesa di campanile sorta dopo la comunicazione della decisione governativa, senza peraltro dimenticare la «purga» di Siena – per usare un termine paliesco – nei confronti di Grosseto.
Prato, affrancatasi vent’anni fa da Firenze, seconda città toscana e terza dell’Italia Centrale, diciottesima d’Italia dopo aver superato anche Parma e Reggio Calabria, rassicurata da direttive che la designavano comunque sicuro capoluogo, si trova ora in una sorta di incubo divenuto realtà, con il sindaco Cenni che per meglio esprimere il proprio giudizio sulla decisione si è fatto poco elegantemente intervistare seduto sul wc del Comune. Ma se «metropoli» doveva essere, era difficile pensarla senza la proiezione verso le altre due città della «conca», dati i vantaggi a tutti i livelli che il nuovo assetto potrà portare. E allora, invece che arroccarsi sul campanile (o sul water), perché non ipotizzare proprio Prato, per la sua centralità, capoluogo della nuova area, con Firenze che manterrebbe invece la sede della Regione? Di per sé il decreto non lo prevede ma, considerando la particolarità della nuova città metropolitana rispetto all’iniziale ipotesi che escludeva gli accorpamenti, un accordo che preluda a una deroga potrebbe non essere impossibile: in ogni caso, se ne può parlare chiedendo anzitutto ai fiorentini una disponibilità in tal senso. All’estero, gli esempi non mancano, a cominciare dalle capitali di diversi stati degli Usa, non coincidenti con la città più popolosa: l’esempio più eclatante è Albany per lo stato di New York. Per restare in Europa, in Galizia il capoluogo regionale Santiago de Compostela non è anche sede di provincia, che è invece a La Coruña. In Danimarca, dopo la grande riforma amministrativa del 2007, la sede della regione comprendente Copenaghen non è nella capitale ma a Hillerød, città di nemmeno 40 mila abitanti. Eppure anche in Spagna e Scandinavia, pur così diverse tra loro, i campanili non mancano: ma forse c’è più senso pratico o, semplicemente, buon senso.