Opinioni & Commenti
Ma la fine della guerra non significa l’inizio della pace
Finita la guerra non è detto che sia cominciata la pace che gli afghani aspettano da 22 anni. L’autorità provvisoria messa in campo con gli accordi raggiunti faticosamente è un mazzo di generali improvvisati e di capotribù antichi, di excambattenti, ma anche di exnemici. Il presidente del Consiglio Hamid Karzai, discendente di una famiglia patrizia che per tre secoli è vissuta all’ombra della vecchia monarchia, deve convivere con il suo potente ministro della difesa, Mohammed Fatim, che sette anni fa lo gettò addirittura in galera per spionaggio.
La maggior parte dei trenta membri del governo appartiene a quella alleanza del Nord che rappresenta le etnie minoritarie del paese rispetto alla maggioritaria etnia rappresentata dai pashtun. I vecchi signori della guerra, messi da parte dalla nuova generazione che ha preso il potere, mettono polemicamente in rilievo che il ministro degli esteri, quello degli interni e quello della difesa del nuovo governo sono nati tutti come in un campo di patate a poca distanza l’uno dall’altro nella valle del Panchir. E sono tutti scricchiolii inquietanti per una fresca costruzione politica che deve inserirsi in un sistema sociale in cui da sempre la legittimità è data dal consenso delle assemblee tribali. Per il momento solo l’attesa dell’aiuto internazionale indispensabile per inaugurare il compito immane della ricostruzione sembra tenere insieme i soddisfatti e i delusi.
Con la disfatta del regime talebano è stato colpito il midollo spinale del terrorismo, o meglio dell’iperterrorismo degli ultimi anni, basato su un centro direzionale mondiale, su un santuario come centro di raccolta per addestramento e smistamento, su una piazza unica per accentuare e centrare operazioni finanziarie. Anche le manifestazioni di solidarietà al terrorismo che percorsero il mondo islamico all’indomani dell’11 settembre e dell’inizio dell’attacco a Kabul, hanno messo la sordina. Il terrorismo come comunicazione di violenza è impressionato dal suo linguaggio gemello della forza in una spirale perversa che sembra incoraggiare ora l’attentato ora la guerra.
Eppure, nonostante la perquisizione frenetica di mari e monti, il cervello del terrorismo, l’obiettivo numero uno, il «wanted» per eccellenza, il famigerato Bin Laden è ancora uccel di bosco. Segno che il terrorismo ha ancora labirinti più estesi e più complessi dei cuniculi delle montagne afghane, che può contare su una rete ancora intatta e su tante vie e modi di sopravvivenza. Nella nebbia del bersaglio mancato c’è chi pensa di allargare la mira anziché puntare più giusto, guardando ad altri obiettivi vistosi come la Somalia e l’Irak.
Ma la guerra al terrorismo non può finire con una guerra e nemmeno con due, con tre o con quattro. Probabilmente dovremo abituarci a convivere a lungo cercando nel frattempo di mettere in atto tutti quegli strumenti di ordine politico, economico, istituzionale che possono tagliargli l’erba sotto i piedi. Ma senza misurare nemmeno troppo con la calcolatrice misure ed effetti, provvedimenti e risultati. Non solo le occasioni della guerra, ma anche le opportunità della pace, possono essere pretesti per il terrorismo, come dimostra purtroppo la lunga storia del Medio Oriente.
In realtà dovremmo accettare anche di considerare la giustizia e la solidarietà come un pizzo che si paga al terrorismo per la nostra preziosa e personale tranquillità. Dovremmo cessare di considerare allora ogni atto di generosità come una partita di giro che alla fine torna sempre a nostro vantaggio, mettendo di fatto i nostri interessi al centro del mondo anche quando facciamo finta di occuparci del resto del mondo. Non c’è bisogno di considerare ogni povero come un potenziale Bin Laden da disarmare con una carità fatta pelosa dalla nostra paura. Basta guardarlo come un uomo che dovrebbe essere simile a noi. Ciò basta ed avanza. La sottrazione dalla sua umanità e non l’attrazione verso chiunque è sufficiente a fare la differenza.