Opinioni & Commenti

Terra santa, doppia, tragica arroganza

DI ROMANELLO CANTINIÈ impossibile ovviamente tracciare in poche righe la vicenda della Palestina e della storia di Israele che ha condotto al dramma dei nostri giorni. Ma quella storia oggi è difficile scriverla e cercare di ricordarla anche perché nell’asprezza dello scontro e nel progressivo irrigidimento delle posizioni si sono accumulati molti luoghi comuni e anche alcune mistificazioni da una parte e dall’altra. Queste opposte vulgate sono ormai moneta corrente anche in molti giudizi e discussioni e rendono ancora più difficile anche una reciproca comunicazione e una più corretta comprensione delle ragioni e dei torti delle parti in causa da quasi cento anni. Cerchiamo qui brevemente di rendere meno perentori solo qualcuno di questi giudizi su alcuni punti tutt’altro che secondari perché toccano i diritti reali o vantati su una «terra promessa» a troppi e considerata oggi purtroppo irrinunciabile anche nelle sue minime parti.Gerusalemme, ad esempio, è diventata ora per ebrei e palestinesi la «città santa» a cui nessuna delle due parti sembra disposta a rinunciare. Eppure questo nome praticamente non appare nel Corano. Gerusalemme diventa di fatto «città santa» dell’Islam molti anni dopo la conquista da parte del califfo Omar nel 638. La prima narrazione del viaggio notturno di Maometto a Gerusalemme su cui soprattutto si basa la santità del luogo è di almeno cento anni posteriore alla morte del profeta. Per la tradizione mistica dell’islamismo sufi il viaggio sarebbe poi solo una esperienza spirituale.D’altra parte nemmeno i sionisti, che erano profondamente laici, consideravano Gerusalemme indispensabile per la nascita dello stato ebraico. Theodor Herzl, il fondatore del sionismo, nel secondo congresso sionista di Basilea nel 1998 propose anche senza successo, di fondare il nuovo stato ebraico addirittura in Uganda dopo aver pensato in un certo periodo anche all’Argentina. Al contrario una parte non secondaria dell’ebraismo religioso considerò il sionismo come una derivazione idolatrica rispetto alla tradizione ebraica più autenticamente spirituale.

Nel 1948 gli israeliani del resto accettarono il piano di spartizione dell’Onu che escludeva Gerusalemme dalla sovranità ebraica. Lo stesso Ben Gurion fu accusato per questo di volere «un sionismo senza Sion». Solo nel giugno del 1967, dopo la conquista a mano armata di Gerusalemme est, il generale Moshe Dayan decretò il diritto di annessione: «Noi siamo tornati nel più santo dei nostri luoghi santi e non ce ne separeremo mai».

Anche per quanto riguarda la visione del sionismo come l’invasione di una terra ormai completamente occupata da altri il giudizio non può essere così netto. Al di là di una opinione abbastanza corrente (riflessa fra l’altro nella secolare meditazione ebraica sulla Diaspora e nella leggenda antisemita dell’Ebreo errante) per cui gli ebrei avrebbero abbandonato completamente la Palestina a partire dai primi secoli dell’era cristiana, in realtà una presenza seppure minoritaria degli ebrei nella loro «terra promessa» non venne mai meno attraverso i secoli. Alla metà del diciannovesimo secolo la popolazione ebraica costituiva la maggioranza relativa a Gerusalemme (6.000 ebrei contro 5.350 arabi e 3.650 cristiani) anche se era fortemente ridotta nel resto della regione.

È improprio anche affermare che il ritorno degli ebrei in Palestina fu solo il risultato di una ricerca di compensazione per il complesso di colpa degli europei in seguito all’Olocausto. Già negli anni Trenta del secolo scorso quasi un terzo della popolazione della Palestina era ebraica a seguito dei progressivi insediamenti iniziati già al principio del Novecento.

D’altro lato anche la spinta per la nascita di una entità statale palestinese nella regione è più il risultato del conflitto arabo-israeliano che non l’eredità di una realtà storica. Durante i secoli dell’impero arabo e poi ottomano la Palestina non costituì mai uno stato a sé stante e rimase sempre una dipendenza ora del califfato di Damasco, ora del califfato di Bagdag, ora di quello del Cairo.

Fino al 1988, quando re Hussein di Giordania decise finalmente di rinunciare alla Cisgiordania a favore di uno stato palestinese, la Palestina era considerata, anche da parte degli stati arabi, come facente parte del regno hascemita. Anche l’idea che il conflitto fra ebrei e palestinesi sia dovuto esclusivamente alla nascita dello stato di Israele è una spiegazione insufficiente a comprendere un conflitto con radici ben più profonde. Purtroppo già negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, nella Palestina sotto il mandato britannico, scoppiarono conflitti anche sanguinosi fra arabi ed ebrei per motivi di convivenza religiosa ed etnica. Nella sommossa del 1929 ci furono oltre 250 morti, in quelle del 1936 e del 1939 le vittime furono oltre settemila.

Contro l’opinione coerente nel mondo arabo per cui la creazione dello stato ebraico sarebbe stata il frutto di una congiura di tipo imperialistico del mondo occidentale non è inutile ricordare che nelle giornate cruciali del marzo 1948 fu soprattutto il rappresentante sovietico all’Onu, Gromiko, a sostenere la partizione della Palestina e la creazione dello stato di Israele quando ancora gli americani sembravano propensi ad un mandato dell’Onu sulla regione. Il governo sovietico fu il primo a riconoscere di diritto lo stato di Israele e a sostenere gli ebrei nella loro prima guerra contro gli arabi con un ponte aereo che attraverso la Cecoslovacchia riforniva gli israeliani di cannoni leggeri e di armi automatiche. D’altra parte non si può dimenticare che proprio in questo periodo della nascita di Israele le organizzazioni ebraiche di cui all’epoca fecero parte uomini come Ytzhak Shamir e Menahen Begin che più tardi sarebbero diventati primi ministri di Israele non esitarono a fare ricorso al terrorismo, L’attentato contro l’Hotel King David di Gerusalemme che serviva da quartier generale all’esercito britannico provocò 91 morti e 45 feriti. Più terribile ancora fu il massacro dei palestinesi nel villaggio di Deir Yassim perpetrato il 9 aprile 1948 dalle milizie dell’organizzazione Etzel di Begin che provocò 200 morti fra la popolazione civile oltre che l’espulsione in massa di tutta la popolazione superstite.

Contro un’opinione troppo a lungo accreditata da parte israeliana per cui i palestinesi sarebbero fuggiti dalle loro terre, sia durante la guerra del 1948 sia durante la guerra dei «Sei giorni», ormai anche da parte della più recente storiografia israeliana si ammette che questi profughi furono cacciati brutalmente anche con la minaccia di stragi simili a quella di Deir Yassim. Intorno al luglio 1948 oltre 700.000 palestinesi furono espulsi delle loro case. I circa 400 villaggi abbandonati dalla popolazione araba furono o distrutti o occupati dagli israeliani. Altri 300.000 palestinesi dovettero abbandonare le loro residenze dopo l’occupazione del 1967. Questi profughi e i loro discendenti raggiungono forse oggi il numero di quattro milioni di persone che, come è noto, rivendicano il loro diritto al ritorno ponendo in discussione la identità stessa dello stato ebraico. Per completare il quadro si deve aggiungere che al momento della guerra del 1948 anche centinaia di migliaia di ebrei dovettero abbandonare i paesi arabi vicini ad Israele.

In realtà nella intricatissima questione del Medio Oriente la storia e la geografia sono materie da sole incapaci di dare dieci ad una parte e zero all’altra anche se evidente appare oggi soprattutto la sconfitta e l’umiliazione di un popolo palestinese ancora senza patria. Ma al di là di una vicenda lunga e drammatica che nessuno può pensare di azzerare a ritroso con una impossibile macchina del tempo è soprattutto il mancato e pieno riconoscimento dell’altro che cerca appigli impraticabili nel passato e in un nazionalismo tardivo e virulento come una ricaduta esploso in Palestina quando altrove stava quasi ovunque tramontando.

Per decenni ognuno delle due parti ha fatto finta che l’altro non ci fosse. Alle parole terribili di Golda Meir («i palestinesi non esistono») rispondeva dall’altra parte il predecessore di Araf, Ahmed Shukeiri, con il «bisogna ributtare gli ebrei in mare». Solo quando si avrà finalmente vergogna di questa dismisura tragica della propria arroganza nel negare ad ogni popolo una propria terra si potrà finalmente intravedere una pace lontana da più di un secolo.