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Pace, una forte domanda di politica

DI FRANCESCO BONINISe si volesse tentare una definizione sintetica del significato delle grandi manifestazioni per la pace che hanno seguito immediatamente il secondo rapporto degli ispettori ONU sulla crisi irachena, si potrebbe forse dire così: una forte domanda di politica.

Questo vale innanzi tutto per l’Italia, che ha visto una delle iniziative più partecipate, il grande serpentone colorato di Roma. Ma cosa può significare, mentre le fonti militari continuano a confermare il conto alla rovescia, una forte domanda di politica?

Per quanto attiene specificamente l’Italia significa forse che, dopo diversi anni passati a rincorrere le semplificazioni e altri anni passati ad ascoltare propagande sempre più assordanti e semplicistiche, la gente qualsiasi, che pure qualsiasi non è perché mantiene un forte senso critico, comincia a sentirsi stretta nel semplice ruolo di “opposte tifoserie” cui sembra essere stata fatta regredire in questi ultimi anni. Partecipare alle manifestazioni allora, in forme civili, vuol dire evidentemente esprimere un disagio, ma anche esprime una richiesta. Sta alla qualità della classe politica offrire delle risposte. Attenzione: la questione non è quella di cui troppo si parla, non investe cioè semplicemente le attuali maggioranza e/o opposizione. La questione riguarda la politica in quanto tale e la qualità degli attori. E si tratta di una domanda sempre più evidente e sempre più stringente.Questa considerazione può valere anche, fatte evidentemente le debite proporzioni, per il sistema delle relazioni internazionali, in questo passaggio così importante. Non è in discussione la solidarietà con il popolo americano, eppure la vicenda di queste ultime settimane ha fatto emerge un disagio nei confronti dell’amministrazione Bush, che ha trovato espressione tanto a livello di Unione Europea, che di Alleanza Atlantica, che di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’unica risposta persuasiva a questa situazione allora non può che essere in termini politici. La superpotenza, anche nel momento in cui dispiega il proprio arsenale, non comparabile con quello di alcun altro Paese al mondo, non può rinunciare a fare politica, cioè a costruire consenso sulla base di una autentica partnership, in vista di obiettivi precisi e condivisi e secondo un disegno strategico, che non può che essere di assetto stabile dell’intera area di cui l’Iraq da sempre è un elemento centrale.

Come insegnano le vicende dell’Afghanistan, anche attraverso l’impegno del nostro contingente, non si può certamente pensare ad un impegno per la “libertà duratura” che non disegni un credibile orizzonte di pace.