Opinioni & Commenti

50 anni di storia sotto le macerie di una guerra annunciata

di Romanello CantiniGià prima di cominciare, la seconda guerra contro l’Iraq ha già fatto le sue macerie, non dove purtroppo sono previste, ma fra le più importanti organizzazioni politiche internazionali. Ed anche a voler essere meno pessimisti bisogna riconoscere che queste istanze sovranazionali, anche se non crolleranno, escono dalla prova pericolanti e forse inagibili per un notevole periodo di tempo.

Innanzitutto l’Onu è stata lacerata dalla pretesa della amministrazione Bush di essere insieme gendarme e giudice, di portare il Palazzo di Vetro a rimorchio di una guerra già decisa in casa, di volere ad ogni costo una guerra con l’Onu, ma anche senza l’Onu. Se il Consiglio di sicurezza dirà alla fine no, ne uscirà con il prestigio di essere restato autonomo, ma anche con la debolezza di non aver potuto evitare il conflitto. In futuro i permessi e i divieti dell’Onu saranno per chiunque ancor meno vincolanti che per il passato.

L’accusa di Bush rivolta all’Onu di essere solo un «laboratorio di chiacchiere» lascia presagire un disimpegno verso un’organizzazione che gli Usa ospitano e che in gran parte finanziano. Sullo sfondo il ricordo della fine della Società delle Nazioni, che gli Stati Uniti prima crearono e poi seppellirono con il loro ritorno all’unilateralismo, lascia temere che la storia serve spesso purtroppo non ad evitare, ma a ripetere i peggiori errori del passato.

Lo stesso discorso vale in fondo per la Nato, diventata una organizzazione tanto più pletorica nei membri quanto più indefinita nei fini dopo la conclusione della guerra fredda. Nata su una teoria difensiva contro un solo nemico, non può che entrare in crisi nel momento in cui al suo interno spuntano teorie offensive contro nemici che non si possono né contare né immaginare in futuro.

C’è qualcuno che da questa divisione fra gli Stati Uniti e i loro alleati di mezzo secolo, da questo solco all’interno dell’Occidente con un Atlantico molto più largo, già ricorre all’esempio sinistro della divisione del basso impero fra Roma e Bisanzio. In questa prospettiva l’Europa potrebbe acquistare un ruolo politico dimostrato fra l’altro in questa occasione dalla capacità di attrarre e di contagiare con le proprie opinioni il resto del mondo. Ma l’Europa è ancora non solo debole nella sua costruzione politica, economica e militare, ma è anch’essa divisa al suo interno seppure con incrinature meno visibili. Fra la Francia di Chirac e la Gran Bretagna di Blair, fra il protagonismo franco-tedesco, l’atlantismo residuo degli stati periferici e il filoamericanismo pauroso dei nuovi venuti dell’Europa orientale le tensioni si fanno più forti. Soprattutto nel momento in cui si sta scrivendo la Costituzione europea e si sta discutendo della politica agricola comune e dell’assistenza ai nuovi membri la divisione sul tema Iraq coincide in buona parte con la divisione su questi temi che dovranno essere affrontati nei prossimi mesi con possibili tentazioni di ritorsioni e di dispetti vendicativi. Eppure, proprio nel momento in cui dopo la fine della guerra fredda l’Europa si mostra più sicura di sé e più intraprendente, la sua unità e il suo rafforzamento diventano indispensabili se il vecchio continente non vuole limitarsi ad un ruolo di testimonianza e di autocompiacimento per aver balbettato il primo no della sua vita.

Può darsi che questa crisi sia passeggera e superabile. Forse «ha da passa’ ‘a nuttata» come diceva Eduardo De Filippo. Ma, almeno finché dura l’amministrazione Bush, nessuno dovrebbe assistere rassegnato e senza fantasia al rischio di crollo di edifici per la cui costruzione c’è voluto più di mezzo secolo.