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Difficile venderla come una guerra di liberazione

di Romanello CantiniNel febbraio di dodici anni fa, quando, dopo oltre un mese di bombardamenti, la coalizione anti Saddam iniziò le operazioni di terra bastarono meno di quattro giorni per liberare il Kuwait. In poco più di ottanta ore 29 divisioni irachene furono messe fuori combattimento e furono catturati 50 mila soldati che marciavano contro il nemico con le braccia alzate. Oggi, dopo una settimana di combattimenti, i progressi compiuti sul terreno dalle truppe angloamericane sono molto più modesti e faticosi. I prigionieri iracheni sono poco più di tremila, mentre le perdite degli alleati sono già oltre una ventina contro il centinaio di tutta la prima guerra del Golfo.

Da una parte è vero che le forze impiegate oggi dagli Stati Uniti sono circa un terzo di quelle messe in campo allora. Ma è anche risaputo che l’esercito iracheno, dopo dodici anni di embargo e dopo un disarmo imposto, è appena l’ombra di quello che nel 1991 era considerato «il quarto esercito» del mondo.

È evidente che questa volta la resistenza irachena è più dura e determinata. Non si tratta ora per i soldati iracheni di puntare i piedi per conservare un Kuwait conquistato da appena sei mesi, ma di difendere la propria terra. Quale che sia il vero sentimento degli iracheni nei confronti di Saddam conta relativamente. Ci sono dei momenti in cui la patria conta più di un tiranno, l’indipendenza più della libertà. Questa obbedienza disperata e cieca, proprio per il furore con cui anche la tigre difende il proprio territorio, apparve anche nella Russia di Stalin nel 1941 e perfino nella Germania del 1945.

Ora non sappiamo più quanto questa guerra durerà ad onta degli ottimisti che, come una agenzia turistica, promettevano un safari fotografico di una settimana nel deserto. Se i tempi si allungano anche le opinioni pubbliche dei paesi coinvolti saranno spinte a cambiare, soprattutto se cresceranno le vittime. L’America non ha dimenticato la sua rabbia sempre più pacifista di fronte allo spettacolo dei body bags, i suoi morti che tornavano dal Vietnam in sacchi di plastica, ed è pronta a mettere sotto accusa chi le ha promesso, a prezzo di capitali enormi spesi negli armamenti più sofisticati, «una guerra senza morti», «un combattere senza morire». Ma soprattutto il futuro dell’Iraq diventa sempre più un enigma. Se non ci sarà a Baghdad un 8 settembre, se l’esercito non diserterà in massa, se la gente non correrà incontro agli americani come gli scugnizzi e le «signorine» di Napoli sessanta anni fa, l’idea della guerra all’Iraq come «guerra di liberazione» non potrà essere venduta né agli iracheni né al resto del mondo.

Il progetto di seminare col solco dei carri armati una democrazia nel bel mezzo del medio Oriente appare sempre più difficile e velleitario. Sul posto gli americani non hanno in Iraq nessuna filiale indigena come l’Alleanza del Nord in Afghanistan. Questa volta, almeno per ora, nemmeno i curdi e gli sciiti che si sollevarono a prezzo di un duro bagno di sangue dodici anni fa, sembrano disposti a muoversi.Per il dopo Saddam per il momento non affiora all’orizzonte né un 25 aprile né un’assemblea costituente costituita da forze di liberazione. In questo scenario l’unico futuro appare una lunga occupazione militare come in Giappone dopo l’ultima guerra. Ma l’Iraq, anche se vinto, non è un’isola senza più eco e richiamo nel resto del mondo