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Quando la parola povertà torna di prepotenza

di Bruno FredianiAlla fine degli anni ’70 si ricominciò a parlare di povertà. Molti furono colti di sorpresa perché si pensava che dal dopoguerra il nostro Paese avesse fatto molta strada e fosse definitivamente entrato nella spirale del benessere.Destava sorpresa che i poveri fossero così numerosi. Le indagini sulle povertà di Giovanni Sarpellon, effettuate nel 1978, mostrarono che poco meno di un quinto della popolazione italiana era in condizioni di povertà.

Destava sorpresa che lo sviluppo economico non avesse avuto la forza di incidere profondamente sui meccanismi che determinavano la povertà e che il nostro sistema di sicurezza sociale non fosse stato in grado di proteggere le situazioni di maggior bisogno. Destava sorpresa, poi, che si chiamasse «povertà» la povertà! L’uso di questa parola, con i suoi intensi significati simbolici, ebbe un impatto sconcertante anche nel mondo degli studiosi, che l’avevano ormai esclusa dal loro linguaggio. Da questa sorpresa nacque un dibattito assai acceso che ha permesso di approfondire le conoscenze e le riflessioni. In particolare ci si domandava se la povertà di cui si parlava era la stessa che ritenevamo di aver lasciato nel nostro passato, o se erano sorti, dopo il boom economico, nuovi meccanismi che la determinavano.

Si cominciò così a parlare, non senza contrasti, di «nuove» povertà, espressione nata dalla necessità di connotare la riscoperta della povertà e di enfatizzarne gli aspetti di diversità, togliendoli dal mondo soft e invisibile alle politiche sociali e alle agenzie di assistenza pubbliche e del privato sociale. In particolare si voleva evidenziare la complessità delle nuove povertà rispetto alle vecchie, che erano intese solo sotto l’aspetto economico. Queste ultime erano caratterizzate da uno sviluppo dualistico tra nord e sud, nonostante i massicci trasferimenti di risorse a favore del sud; il permanere di sacche di povertà nel resto d’Italia, soprattutto nelle grandi periferie urbane; la particolare esposizione di alcune fasce come anziani e disabili; un più elevato tasso di povertà tra i lavoratori agricoli, che però tendevano velocemente a diminuire; un maggiore rischio per le famiglie numerose.

Le «nuove» povertà sono connotate, invece, a livello macrosociale, dalle modificazioni del sistema delle stratificazioni sociali che producono le disuguaglianze e del ruolo della politica e delle modalità di crescita del welfare state. Le ricorrenti crisi economiche e le conseguenti ristrutturazioni a carico del mercato del lavoro producono disoccupati di lungo periodo, giovani in cerca di occupazione, donne disoccupate; il problema della casa, che diventando un bene sempre più raro, diventa anche più difficilmente accessibile; un welfare insufficiente lascia scoperte categorie di persone come le donne non assicurate, pensionati sociali e al minimo, disabili.

A livello microsociale si modifica il ruolo e la composizione della famiglia: famiglie monoparentali, divise e conflittuali, irregolari, famiglie di anziani soli (coppie e single). Si modificano i processi di determinazione di senso nei «mondi vitali» e nell’azione degli attori sociali e da qui nascono fenomeni quali il disagio giovanile, le tossicodipendenze, giovani in cerca di lavoro da lungo tempo, portatori di bisogni che non si rivolgono ai servizi, barboni, zingari, malati di mente.

A tutte queste situazioni va aggiunto, ma meriterebbe una riflessione a sé, tutto il mondo degli immigrati, che negli ultimi quindici anni ha riportato con drammaticità di fronte ai nostri occhi i problemi delle povertà vecchie e nuove insieme.

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