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Clonazione, se la scienza non ha più rispetto dell’uomo
L’obiettivo dell’esperimento sarebbe quello di ottenere dall’embrione la riserva di cellule staminali da coltivare in laboratorio e da usare a scopo terapeutico. Da un punto di vista biologico sarebbe necessario raggiungere lo stadio di blastocisti perché è soltanto in esso che si formano le cellule staminali.
Per ottenere l’embrione, i ricercatori hanno utilizzato una cellula prelevata da una donna adulta e hanno inserito il suo nucleo all’interno di un ovocita in precedenza privato del suo nucleo, prelevato dalla stessa donatrice. A questo punto la cellula adulta si è riprogrammata, regredendo nello sviluppo ed ha avviato il dinamismo per dividersi fino a dare origine ad un embrione. Questi diviene una riserva di cellule, che saranno a disposizione del paziente, cui è diretta la terapia, ed evitare così problemi di rigetto. Le nuove cellule potrebbero infatti essere usate per riparare il tessuto del cuore colpito dall’infarto, quelli delle ossa danneggiati dall’osteoartrite, o ancora quelle di insuline per la cura del diabete, o quelle del cervello per la cura di malattia neurodegenerative come il morbo di Parkinson.
L’esperimento, compiuto dal gruppo coordinato da Wook Suk Hwang, è stato reso noto dalla rivista specializzata “Science Express”. I genetisti sono molto cauti nel commentare la scoperta compiuta. In attesa di conferme autorevoli, tuttavia, è possibile svolgere qualche riflessione, riprendendo alcuni concetti riportati da alcuni giornali in modo acritico, quasi si trattasse di un dogma scientifico. L’esempio più eclatante è la terminologia utilizzata: clonazione terapeutica, clonazione a fini di cura. Essa sarebbe di per sé buona, prescindendo da quello che è realmente: si crea un embrione, cioè un essere umano nella fase iniziale del suo sviluppo, per utilizzarlo come deposito da cui prelevare le cellule adatte a curare il paziente. Il risultato, al quale si vorrebbe acclamare, è quello che le cellule non saranno rigettate dall’organismo ricevente, perché contengono il patrimonio genetico del paziente: donatore e ricevente, contemporaneamente. Secondo Renato Dulbecco si sono avuti “due risultati importanti: si ottiene una cellula che ha tutti i geni presenti nelle cellule di un individuo adulto, mentre l’ovocita contiene solo una metà di tali geni (l’altra metà proviene normalmente dallo spermatozoo); inoltre l’ovocita modificato contiene i geni dell’individuo donatore. Perché quest’ultima differenza è importante? Lo è se si vuole ottenere, dall’embrione che ne risulta, cellule staminali che siano accettate dall’individuo; con il metodo classico non sarebbero accettate, e infine sarebbero distrutte dalle difese immunologiche dell’individuo” (“la Repubblica” 13/02/04).
Purtroppo, per poter realizzare tutto questo occorre mentire sull’identità dell’embrione, introducendo l’errata dizione “embrione precoce”: questo sarebbe soltanto un insieme di cellule e non un essere autonomamente vivente. Fa vibrare i polsi il modo asettico con cui si descrivono questi procedimenti: “finora le cellule staminali umane erano state prodotte da embrioni precoci ottenuti con metodo naturale di fecondazione di ovocita da uno spermatozoo: essi risultavano dal processo di fecondazione in vitro che generalmente produce un numero di embrioni superiore a quello necessario per produrre una gravidanza. È sembrato naturale usare tali embrioni per ottenere un prodotto che può essere utile per sviluppare nuove terapie per malattie inguaribili”.