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Onu, una riforma nella logica del Congresso di Vienna
È evidente che una revisione della composizione del Consiglio di sicurezza si impone dopo la miniriforma del 1963 che portò i suoi membri da undici a quindici. Anche se il funzionamento dell’Onu ha problemi ancora più gravi di quello della sua rappresentanza (come pacificare le decine di guerre in corso, come sfamare tutto il mondo, come curare almeno una buona parte dei malati di Aids ) è chiaro che anche un allargamento dei membri del suo massimo organo di decisione – che è il Consiglio di sicurezza – può dare all’Onu maggiore partecipazione e più autorità.
E tuttavia, quando si tratta di promuovere nuovi candidati nel governo del mondo non si sa mai fino a che punto queste nuove ammissioni rispondano ad ambizioni di prestigio e di orgoglio nazionale e quanto invece ad un corretto e legittimo ampliamento della rappresentanza e della democrazia nella massima istituzione internazionale.
Ha fatto, ad esempio, scalpore negli ultimi giorni la proposta, appoggiata anche da diversi Paesi europei, di istituire altri cinque seggi permanenti nel Consiglio di sicurezza da assegnare alla Germania, al Giappone, all’India, al Brasile e probabilmente al Sudafrica.
Di per sé l’idea del seggio permanente è in contraddizione con il principio di democrazia che prevede il diritto di revoca di ogni eletto. I cinque seggi permanenti attualmente esistenti furono a suo tempo un prezzo che si dovette pagare, perché l’Onu nascesse, ai cinque Paesi vincitori della seconda guerra mondiale e alle cinque potenze che avevano o avrebbero avuto un armamento atomico. Il diritto di veto poi fu soprattutto la condizione che Stalin pose in un momento in cui si sentiva isolato con la nascita della guerra fredda. Ma in condizioni normali una delle poche armi di pressione che i Paesi del Terzo mondo hanno nei confronti dei Paesi ricchi è quella, ad esempio, di condizionare il loro appoggio per la elezione in un Consiglio di sicurezza a rotazione.
Nella proposta attuale per quanto riguarda la Germania e il Giappone, che sono le due maggiori potenze economiche mondiali fuori dal Consiglio e quelle che più contribuiscono alle spese del Palazzo di vetro dopo gli Stati Uniti, sembra che si sia privilegiata una logica da società per azioni per cui chi mette i soldi deve comandare. Ma un seggio permanente crea un abisso fra chi è assunto per l’eternità nell’Olimpo dei Grandi e chi, pur essendo solo di qualche gradino al di sotto per importanza, è costretto per sempre a restarne escluso o condannato alla questua di un improbabile incarico a tempo determinato.
Con la perennità si assiste di fatto ad una divisione quasi congenita del mondo in nazioni di serie A e di serie B. E poiché, la differenza fra chi è iscritto nell’albo d’oro dei patrizi permanenti e il resto del mondo è enorme, sono inevitabili anche le rivendicazioni frustrate del vengo anch’io! No, tu no!.
Se anziché adottare il criterio della potenza economica, si adotta, ad esempio, quello della popolazione, non si capisce perché in Asia si deve dire sì al Giappone e no all’Indonesia e in Africa promuovere il Sudafrica e bocciare la Nigeria. E infine in questa spartizione della torta rimane escluso quel quinto di umanità che è oggi il mondo islamico e che rappresenta la più inquieta e già vittimistica realtà mondiale.
Ma questa amnesia non è casuale. La logica in cui questa proposta si iscrive è in fondo quella del concerto di potenze come nell’Europa del Congresso di Vienna e dei primi anni del secolo scorso: un concetto che assegna aree di influenza statali a livello continentale e, quindi, esclude un seggio Ue, un’idea che contrasta con la dimensione mondiale dell’Onu e che non a caso non riesce a interpretare politicamente una realtà non statale, né nazionale, ma intercontinentale come il mondo musulmano.