Opinioni & Commenti

Afghanistan, prove di democrazia

di Romanello Cantini Negli ultimi tre anni le elezioni in Afghanistan sono venute assumendo non solo l’importanza di un fatto, ma anche la prova di una teoria. Il laboratorio afghano è diventato un orto botanico dove si è sperimentata la possibilità di trapiantare la democrazia ovunque e soprattutto in quell’“humus” del mondo islamico dove l’esercizio della sovranità popolare è piuttosto raro, tale da sembrare, a detta di molti, incompatibile e inapplicabile se non come una violenza su una cultura. In altre parole le elezioni in Afghanistan non sono solo la possibile chiusura di venticinque anni di guerra, ma anche una simulazione di ciò che dovrebbe accadere in Iraq l’anno prossimo in un mare di difficoltà di gran lunga superiori. Sullo sfondo c’è, alla fine, la grande domanda se la democrazia sia universabilizzabile oppure no.

Le elezioni afghane di sabato scorso non ci danno ancora una risposta definitiva sul futuro del Paese e sulla scommessa di una possibile vera democrazia. Si è votato, tuttavia, nella calma e con un’alta partecipazione. Il salto sembra evidente soprattutto per la presenza femminile. Ma, al di là degli allarmi sui brogli, quel che colpisce è che ancora in questo Paese, in cui ci sono dovunque più armi che frigoriferi, si sia votato non in termini individuali, ma comunitari secondo l’appartenenza al clan o alla tribù. La libertà dell’Afghanistan è insomma la “libertà” dei comuni medioevali dove i Montecchi votavano per i Montecchi e i Capuleti votavano per i Capuleti. Prima ancora del consolidamento della democrazia manca la creazione di uno Stato, anche se si sprecano le nazioni con le armi al piede secondo la decina di etnie che sole hanno avuto finora in Afghanistan una identità e un potere reale.

Il problema del rapporto della democrazia con il mondo islamico, al di là della forma più che discutibile con cui si cerca di imporre un sistema politico, rimane un’incognita o, comunque sia, una difficile scommessa. Eppure laddove, come nel caso della Turchia, questa democrazia sembra in buona parte acquisita si esita ancora ad accettarla e a sostenerla. L’ingresso della Turchia nell’Unione europea, anche se non è certo previsto per domani, divide già a metà l’opinione pubblica europea e spezza destra e sinistra, partiti democristiani e partiti socialisti del Vecchio continente.Chi vuole tenere fuori la Turchia teme la perdita d’identità dell’Europa, il peso di una popolazione seconda solo ai tedeschi, il rischio di emigrazione, di competizione, di assistenza per un popolo quattro volte più povero del resto dell’Unione. Al contrario chi vuole accoglierla teme la reazione di un Paese respinto dopo essere stato tenuto per quarant’anni in sala d’aspetto e invoca l’importanza di mettere in vetrina rispetto al resto del mondo un Paese islamico, ma anche laico e democratico.

La presenza di uno Stato islamico in Europa non è di per sé una contraddizione. Altri Stati a maggioranza musulmana che domani potrebbero chiedere l’adesione (Albania, Bosnia) stanno già nel cuore geografico del Vecchio continente. L’identità europea, sarebbe stata meglio difesa, anche come assicurazione che ci avrebbe permesso di accogliere tranquilli altre adesioni, se nella Carta costituente ci fosse stato un riferimento più preciso alle nostre radici religiose.

E per quanto riguarda la Turchia (ad evitare fra l’altro il paradosso di un Paese europeo che unico avrebbe una religione dominante al 99,08% dei suoi abitanti) oltre a chiedere democrazia, diritti umani, parità fra uomo e donna, non è superfluo un richiamo alla libertà religiosa. La Turchia moderna ha un debito verso i cristiani armeni e greci che furono cacciati mentre procedeva quel processo di occidentalizzazione del Paese i cui meriti ci hanno fatto dimenticare che all’inizio del secolo scorso metà della popolazione di Istanbul era cristiana.

Il quadro dei Paesi islamici in movimento si allarga con il terribile attentato di Taba. Dopo la strage di settanta turisti europei a Luxor di sette anni fa, ora l’Egitto è di nuovo chiamato a fare i conti con una minaccia che mira nel mucchio allo straniero chiunque sia e che rischia di prosciugare quella risorsa del turismo così importante per un Paese dove solo un abitante su tre ha un lavoro. La nuova sfida mette in discussione la capacità del governo Mubarak di prevenire e reprimere il terrorismo. Ma interpella anche tutta la società civile egiziana a cominciare dall’Università di Al Azhar al Cairo, così autorevole nel mondo musulmano, così ascoltata sia che decida di sostenere il fanatismo, sia che indichi al contrario la via del dialogo e della pace nella giustizia.