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Il caso Brusca: se le belve fanno comodo allo Stato

di Giuseppe AnzaniDire che è uno scandalo è poco. La notizia che Giovanni Brusca va a casa in permesso premio una volta ogni due mesi è di quelle che indignano. Lui che si è accusato di cento omicidi, che ha premuto il pulsante della strage di Capaci, che ha strangolato quel bambino sciogliendone poi il corpo nell’acido. Che giustizia è? Gli avevano dato trent’anni, ne ha fatti otto; forse di qui a poco potrebbe uscire di galera, come è accaduto ad altri pentiti. Chi ha stabilito questo congegno, che oggi ci urta fino all’indecenza?La risposta c’è: è la legge.

È una legge scritta nel 1991, riscritta nel 2001. Andiamola a leggere, prendiamo il capitolo sui «collaboratori di giustizia», facciamoci raccontare da quelle norme le ragioni storiche del loro contenuto; ci accadrà allora che il cuore resterà pieno di sdegno, ma ci sarà anche rievocata la paura e l’impotenza che il dominio mafioso infliggeva allo Stato con i suoi crimini impenetrabili; e il progetto di una svolta strategica nella lotta antimafia, simile a quella che aveva disarticolato i santuari del terrorismo mediante le rivelazioni dei pentiti. E che cosa può invogliare un criminale catturato a incastrare gli altri criminali della sua banda, o della sua cosca, vuotando il sacco? Un premio, una promessa, una specie di contratto. La legge non ha usato la parola «pentimento», essendo indifferente al suo scopo che la «gola profonda» sia quella di un disperato ravveduto o di un sicofante che vende i complici. Il sistema ha funzionato, Giovanni Brusca ha fatto andare in galera 21 boss mafiosi.

Giusto così, allora? Ci prende un senso di avvilimento. La nostra coscienza giuridica, diversa dalla disinvoltura americana che dà ai collaboratori persino l’impunità, si è sempre chiesta se questi non siano «patti scellerati»; e noi non ce ne leviamo il disgusto. Ma quando viene il momento di pagare ai collaboratori quella schifosa cambiale, chi deve applicare quella legge non può barare. Che siano i giudici a prendersi ora gli insulti è un’altra imbecillità.Il problema torna sempre alla radice: la mafia ha la sua forza nell’ombra e nel segreto, nel vincolo d’affiliazione e nell’omertà; le rivelazioni scoperchiano il suo interno, i progetti di stragi e omicidi, gli arsenali di armi e esplosivi, facendo salvare vite umane e catturare boss. I collaboratori di giustizia rischiano la vendetta mafiosa capitale, e a volte la loro libertà «protetta» assomiglia a una latitanza inversa.

Il basso profilo etico della legislazione sullo scambio di favori fra i pentiti e lo Stato convive con l’utilità che la strategia anticrimine ne ricava. Se questa sia o non sia, nella nostra storia, una vergognosa necessità alla quale è fatale piegarsi, è pensiero che non cessa di tormentarci. Ne saremo liberi quando il costume mafioso sarà ripudiato da una rivolta collettiva delle coscienze, quando ai mafiosi braccati da tutti converrà la resa senza baratti, per dare alla parola «pentiti» il senso grande e tremendo del mutamento, per tornare uomini da belve che sono stati.