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Terra Santa, la sfida di Sharon

Con la seduta, forse, più lunga della sua storia, la Knesset, il Parlamento israeliano ha approvato il 26 ottobre, il ritiro delle colonie dalla Striscia di Gaza, territorio palestinese occupato 37 anni fa. Dopo il Sinai e il Libano, Israele lascia anche un altro pezzo di terra conquistato in guerra. Il voto ha spaccato il Parlamento (67 voti a favore, con i laburisti di Peres che hanno votato per il ritiro, 45 contrari, di questi 17 sono parlamentari del Likud, il partito del premier, e 7 astenuti) e il Paese con manifestazioni di 15mila coloni davanti al Parlamento. Ora si attende per marzo l’approvazione definitiva del Governo. Ecco l’analisi del nostro esperto di politica internazionale Romanello Cantini.

di Romanello Cantini Ora anche il “duro” Sharon, l’architetto dell’invasione del Libano di ventidue anni fa, l’autore dell’incursione nella spianata delle moschee che fece scoppiare la nuova Intifada quattro anni fa, il sostenitore delle incursioni nei territori palestinesi a caccia di presunti terroristi dice: “Andiamocene”.

Andiamocene da Gaza anche a costo di decidere con una ristretta maggioranza, anche al prezzo di spaccare a metà il proprio partito. Gaza è una sorta di mostruoso formicaio dove settemila coloni israeliani sono sommersi in mezzo ad una massa di un milione di palestinesi stipati in un territorio grande quanto un decimo di una media provincia italiana. Per Sharon l’abbandono di Gaza, dove i coloni non possono essere protetti, più che una scelta è una necessità dettata dall’impossibilità di difendere l’indifendibile. Più che una ritirata il suo è un ripiegamento che non mette in discussione gli altri trecentottanta mila coloni sparsi nei territori occupati.

E tuttavia perfino il realismo conservatore di Sharon ha dovuto alla fine scontrarsi con la resistenza del precario diventato eterno, con la radicalizzazione crescente che ogni muro contro muro provoca nel tempo, con la tolleranza a lasciar credere che Israele non è il minuscolo triangolo d’Asia riconosciuto dall’Onu, ma la “terra promessa” dal Nilo all’Eufrate, mai interamente conquistata e mai interamente perduta nei secoli, secondo l’illusoria continuità che dal tempo di David giungerebbe fino ai nostri giorni.

Ora perfino Sharon sembra sconvolto da questa sacralità di “nazione” e di “terra” di cui gli ebrei sono stati altrove le principali vittime. Vede nella rivolta dei coloni e di metà del suo partito “un complesso messianico”. Ricorda che “non si può vincere solo con la spada e non si può governare su milioni di palestinesi”.

Gaza infatti, che ha visto triplicare la sua popolazione araba in trenta anni, è fra l’altro la proiezione del futuro degli israeliani condannati ad essere sconfitti dal semplice indice di natalità dei palestinesi se non tagliano in tempo la loro sorte rispetto a quella della Cisgiordania araba. Ciò che cerca oggi soprattutto Sharon è questa separazione. Una separazione fra i territori di cui il muro di confine appena costruito è il simbolo e lo strumento. Una separazione che spezzi la spirale del terrorismo e delle rappresaglie in attesa di una nuova disponibilità e di una nuova classe dirigente palestinese. L’ipotesi di un congelamento della crisi nel tempo è evidentemente illusoria perché proprio la sollevazione dei coloni di oggi di fronte ad uno sgombero in teoria sempre previsto dimostra come nel tempo ogni problema non guarisce, ma marcisce.

Il fatto che Sharon vada avanti, anche a costo di liquidare il proprio partito e di diventare ostaggio del partito laburista, dimostra la tempra dell’uomo, ma anche la durezza estrema di ciò che è durato troppo a lungo e che alla fine nemmeno i moderati riescono facilmente a cambiare.

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