Opinioni & Commenti
Palestina, il coraggio di Sharon. Ma resta il problema dei cristiani
Per la prima volta sembra apparire anche un vocabolario comune, primo presupposto per intendersi tra palestinesi e israeliani. Abu Mazen ha definito «terrorista» l’ultimo attentato del 28 agosto ad un autobus di Bensheba e Sharon ha chiamato «terrorista» l’uccisione di palestinesi da parte di un colono ebraico e di un soldato disertore.
Lo smantellamento delle colonie ebraiche della striscia di Gaza è stato un atto di coraggio da parte del governo israeliano tanto più significativo perché compiuto senza nulla chiedere alla controparte palestinese e mettendo a dura prova la coesione della società israeliana divisa quasi a metà davanti allo spettacolo dei soldati israeliani che trasferivano con la forza dei cittadini ebrei.
Ma gli ottomila coloni da Gaza sono quasi una goccia nel mare rispetto ai duecentocinquantamila coloni ebraici che negli ultimi trentacinque anni si sono trasferiti nella Cisgiordania occupata come una ipoteca di cemento contro la restituzione della terra ai palestinesi e come una improvvisazione spontaneistica della Grande Israele sognato da molti coloni. Ben più impegnativa sarà in futuro la demolizione di questo spezzatino abusivo grande quanto il tessuto urbano di una grande città. Accade così che, quando da parte del governo israeliano non si parla di conservazione di tutte queste colonie, si ipotizza uno scambio fra nuove terre da consegnare ai palestinesi e l’annessione a Israele delle concentrazioni ebraiche più importanti.
Il dialogo già difficilissimo su questo punto può tuttavia continuare a patto che nelle prossime elezioni legislative palestinesi non prevalgano, come molti temono, gli estremisti di Hamas. Ormai anche l’autorità palestinese stenta a rappresentare il popolo di cui finora è stata considerata l’espressione indiscussa.