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C’era una volta il Libano felice

di Romanello CantiniC’era una volta, come nelle favole, il Libano felice. Un Paese che sembrava l’eccezione del mondo arabo, una democrazia non senza macchia, ma anche senza confronti, una convivenza accettata e disciplinata fra musulmani e cristiani, una economia sofisticata, fatta di banche, di finanza, di capitali in cerca di avventura, che faceva parlare fra l’entusiasmo e lo scandalo di “Svizzera del Medio Oriente”. Poi, venne la guerra civile durata 15 anni dal 1975 al 1990: 150mila morti, 30mila desaparecidos, 1 milione di cristiani emigrati all’estero.

La guerra fece, fra l’altro, pendere la bilancia di una popolazione fino ad allora equivalente fra cristiani e musulmani a favore della maggioranza di quest’ultimi. Fu una guerra, alla fine, domata con l’intervento dell’esercito siriano nel Paese, con la pace comprata con la moneta della libertà. Il ricordo del sangue versato ha depresso, per anni, ogni volontà di liberazione. Insomma, “i morti che uccidono i vivi”, secondo l’espressione del poeta algerino Eddine Beucheleikh.

Gli accordi di Taef del 1989 fra le autorità libanesi e il governo di Damasco prevedevano che le truppe siriane sarebbero rimaste nel Paese per 2 anni. Alla fine ci sono rimaste 8 volte tanto.

La tutela siriana sul Libano è apparsa incontestata e quasi ovvia fino al settembre scorso, quando una deliberazione dell’Onu, sollecitata da una non frequente alleanza fra Stati Uniti e Francia, ha imposto il ritiro di 14.000 soldati siriani ancora presenti e il disarmo delle milizie all’interno, con implicito riferimento ai guerriglieri di Hezbollah (in arabo “Partito di Dio”), ormai in campo da oltre 20 anni.

Ma a far scendere i libanesi in piazza per la prima volta è stato soprattutto l’attentato che, nel febbraio scorso, ha ucciso Rafic Hariri, il tante volte primo ministro negli ultimi 15 anni, che si era ribellato alle imposizioni che giungevano da Damasco. La commissione di inchiesta nominata dall’Onu e che doveva chiudere i suoi lavori proprio in questi giorni ha già, di fatto, individuato in 5 esponenti dei servizi segreti siriani i principali organizzatori dell’attentato al popolarissimo leader libanese.

Nel frattempo, l’assassinio del leader cristiano Gebran Tueni, perpetrato lunedì scorso (12 dicembre), ha sollevato nel Paese una nuova ondata di indignazione di massa, testimoniata dalla enorme folla che ha invaso Beirut per i funerali di quella che appare la nuova vittima del potere di intimidazione filosiriano. Una volta tanto, cristiani maroniti e ortodossi, musulmani sunniti e drusi sembrano unanimi nel chiedere indipendenza dal potente e intrigante vicino.

E, tuttavia, in un Paese che, da sempre, è un puzzle di confessioni religiose, che costituiscono la colla di ogni appartenenza non si può dimenticare che la maggioranza relativa della popolazione è rappresentata oggi dagli sciiti, che hanno il loro riferimento politico nella organizzazione Hezbollah.

Questo “Partito di Dio” vive oggi nella leggenda di essere la forza, che ha costretto gli israeliani ad abbandonare il Libano 4 anni fa, si vanta ancora di essere il cane da guardia che presidia i confini a Sud e si è inventato, come pretesto per restare ancora con le armi in pugno, la presunta occupazione da parte dei “sionisti” di un francobollo di terra libanese di 3 chilometri per 4. Ma Hezbollah è insieme carrarmato e ambulanza, organizzazione militare e terroristica contro gli israeliani e istituzione di assistenza e di solidarietà nei confronti della popolazione libanese.

Per questo suo modo di fare, da gendarme a crocerossina, anche i gruppi libanesi, che più si oppongono alla presenza siriana, non hanno né la volontà né la forza di fronteggiare apertamente una organizzazione, che ha ancora troppe simpatie nel Paese e che, nel luglio scorso, è stata anche chiamata a far parte del governo con propri ministri.D’altra parte, quando, dopo le manifestazioni antisiriane del febbraio scorso, i capi di Hezbollah decisero anch’essi di scendere in piazza, dimostrarono di essere in grado di mobilitare centinaia di migliaia di persone a sostegno, di fatto, della Siria.

Così, con il passare dei mesi, gli entusiasmi nati all’inizio dell’anno per una mobilitazione per la libertà del Libano, per una sorta di rivoluzione arancione sullo stile dell’Ucraina a Beirut, per la terza pianticella democratica, che insieme all’Afghanistan e all’Iraq veniva a bucare la terra dura degli Stati islamici, non sono più tanto trionfalistici.

Senza un distacco di Hezbollah e del gruppo sciita dalla solidarietà con i duri del mondo islamico nella lotta contro Israele, non appaiono all’orizzonte, in tempi brevi, la liberazione e la pacificazione del Libano. Ed anche qui, dove pure la storia e la cultura del Paese sembrano rendere tutto più facile, non sappiamo dire ancora se la via maestra è quella della democrazia che porta alla pace o quella della pace che porta alla democrazia.