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Etica e finanza, un quadro deprimente

DI FLAVIO FELICEdocente di Dottrine economiche e politiche nella Pontificia Università Lateranensee direttore scientifico dell’Osservatorio di etica ed economia “Finetica”Le preoccupanti notizie che giungono dalla cronaca giudiziaria di questi ultimi giorni – culminate con le dimissioni del governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, rassegnate il 19 dicembre nelle mani del consigliere anziano – delineano un quadro deprimente della realtà economica e finanziaria del nostro Paese. Emergono ipotesi di reato che, qualora fossero confermate dal prosieguo delle indagini, sarebbero di una gravità inaudita e imporrebbero un giudizio estremamente severo nei confronti di buona parte della classe dirigente italiana dell’ultimo decennio.

Un’élite politica ed economica che, paradossalmente, avrebbe dovuto rimediare agli errori della precedente classe dirigente. Allo stato attuale nessuno può dire che cosa accadrà, se siamo di fronte ad una nuova Tangentopoli, se dovremmo prepararci al generalizzato “tintinnio” delle manette, ovvero se si tratti del fisiologico rigetto da parte del sistema di un corpo giudicato come estraneo (ma estraneo per chi?).

Nessuno può dire allo stato attuale, se la parte asportata abbia prodotto già delle metastasi ovvero se sia un bubbone isolato, eliminato il quale il corpo riprenderà a funzionare in modo ottimale (ma ottimale per chi?). Di certo, le persone e le istituzioni coinvolte dovranno rendere conto delle loro azioni e rimediare, se possibile, al discredito nel quale hanno fatto sprofondare le realtà finanziarie da loro dirette e rappresentate.

Una cosa è certa, prepariamoci ad un lungo periodo di veleni e d’ideologiche strumentalizzazioni; si tireranno in ballo l’inaffidabilità dei cattolici, l’ipocrisia della sinistra, l’affarismo della destra. Ciascuna di queste denunce presenta alcuni elementi di verità, sebbene non dica necessariamente il vero. È un fatto però che, negli ultimi anni, il brutto affare Parmalat, le intercettazioni telefoniche che hanno riguardato il governatore della Banca d’Italia e oggi i suoi sviluppi con relativi arresti e dimissioni dello stesso governatore, impongono una seria riflessione sulla prospettiva etica che dovrebbe animare i cattolici che operano nella sfera economica e finanziaria.

A tal proposito sembrerebbe emergere una fastidiosissima schizofrenia, un atteggiamento scostante che oscilla tra la condanna del mercato, inteso come luogo di rapina e fucina di tutti i vizi, e lo spregiudicato utilizzo delle sue istituzioni fino a violentarle, per poi magari accampare ragioni d’ordine superiore. È giunto il momento di avviare una rigorosa riflessione tra i cattolici su concetti quali mercato e impresa senza cadere nel doppio agguato.

In primo luogo, andrebbe sottolineato che il mercato è uno strumento tanto necessario quanto umile, in quanto si regge sulla consapevolezza dei nostri limiti, sulla inevitabile dispersione delle conoscenze e, conseguentemente, sul bisogno reciproco dell’altro. Il mercato, piuttosto che essere un “luogo” da occupare, rappresenta un processo relazionale, è l’insieme delle relazioni mediante le quali ciascuno cerca di soddisfare i propri bisogni ricorrendo alla soddisfazione dei bisogni altrui: che il mercato si esprima mediante il baratto, le conchiglie, la moneta o i titoli, la logica che ne governa i processi non muta di una virgola. Riguardo all’impresa, evidenziamo una nozione di matrice personalista, la cui funzione sociale risiede nella sua capacità di creare valore e il cui apprezzamento etico dipende, come per qualsiasi altra dimensione dell’agire umano, dal comportamento, dalle motivazioni e, in generale, dall’orizzonte etico degli operatori: “Un’istituzione – si legge nell’Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et Paenitentia di Giovanni Paolo II – non può essere in se stessa buona o cattiva”.

Dunque, si profila la reale possibilità di contribuire all’edificazione di un’economia di mercato eticamente adeguata. Come dire che l’economia senza etica non sarebbe neppure configurabile come economia, piuttosto, per usare un’espressione di don Sturzo, saremmo nel campo della “diseconomia”. Con ciò non si intende affermare che in caso di “diseconomia” non si ottenga un utile – dal nostro punto di vista, la “diseconomia” è del tutto compatibile con l’opulenza – ma, semplicemente, che quell’utile è frutto della frode, della malversazione, dell’inganno e non dell’autentico agire economico.