Opinioni & Commenti

Minoranza di obbedienti in un paese «cattolico»

di Pietro De Marcodocente di sociologia della religione all’Università di FirenzeLa formula adottata dalla Stampa di Torino (del 18.1.2006) nel paginone dedicato al Rapporto Italia 2006 dell’Eurispes, compendia bene cosa la stampa nazionale ha considerato, fuggevolmente, «notizia»: Sondaggio shock dell’Eurispes. Un «popolo cristiano» poco praticante e disubbidiente su temi come la procreazione. Al «popolo cristiano» si faceva dichiarare: «Sono cattolico, ma dico sì ai PACS». Tutto fuggevolmente, perché la «notizia» si è consumata nell’arco di due brevi giorni. Uno sguardo più attento all’anticipazione fornita dall’Eurispes ai giornali avrebbe potuto cogliere molte altre cose, non così adatte ad esorcizzare il temuto ascendente della Chiesa e dell’episcopato cattolico sull’opinione pubblica. La stessa stampa cattolica, certamente tentata da una risposta polemica al «sondaggio shock», ha dedicato poi scarsa attenzione ad una ricerca (non eccelsa) che approda ad un mélange di dati consolanti ed imbarazzanti. Vediamo.Il dato iniziale è in certo modo il più rilevante: l’87.8% degli intervistati si dichiara (o meglio: accetta di potersi definire) «cattolico credente». Un dato importante; esso investe per la quasi totalità le distinte figure di «religiosità» individuate (e variamente denominate) dalla ricerca socio-religiosa italiana in questi decenni e le riconduce ad una plausibile comunanza «cattolica».

I sociologi suddividono una popolazione di poco superiore (il 91,1% della popolazione italiana sopra i 18 anni) in almeno due grandi gruppi, «religione di Chiesa» e «religione diffusa» e in cinque tipi di religiosità (due tipi di religione di Chiesa e tre di religione diffusa), secondo un criterio di progressivo distanziamento, nella fede e nella pratica, dalla conformità cattolica. Per esemplificare, e adottando la terminologia proposta da Roberto Cipriani, ricordiamo che le percentuali (nazionali) erano, alla metà degli anni Novanta, le seguenti: 9,4% (religione di Chiesa primaria, o orientata), 22,6% (religione di Chiesa secondaria, o riflessiva), 16,5% (religione diffusa, o modale, primaria), 21,6% (religione diffusa intermedia), 21,0% (religione diffusa perimetrale), 8,9% (non-religione). Ricerche posteriori non alterano questo profilo.

Sono specialmente i valori percentuali dei due gruppi principali, che oscillano rispettivamente tra 30 e 33%, e attorno al 60%, ad essere confermati. Per buone ragioni, credo (le differenze tra religione di Chiesa secondaria e religione diffusa primaria non costituiscono il vero scalino in quella che si chiama anche religione continua), preferisco considerare la religione diffusa primaria come figura «perimetrale» della religione di Chiesa. Percentualmente abbiamo (1995) un importante dato nazionale del 48,5%; ad esso corrispondeva un 54,1% nell’area meridionale (1998). Il confine del 50% (con rilevanti oscillazioni) resta, a mio parere, un buon punto di riferimento per l’analisi. Ovviamente, i due tipi di religione diffusa relativamente più lontani dalla religione di Chiesa oscillano, a loro volta, attorno al 40% (nel 1999, il 42,5%) del campione. Bisogna ricordare che per questa area, anche se con una segmentazione diversa, erano state proposte sottili tipologie (Arnaldo Nesti): con uno slittamento da «cattolico a modo mio», progressivamente, a «cristiano», «religioso a modo mio», «dubbioso» (anche Simona Scotti, 2002, per il Mugello).

Ora, la grande area dei «cattolici-credenti» (87,8%) proposta dall’istantanea del Rapporto Eurispes include tutte queste aree, ovvero anche le figure di religiosità individuate come le più disomogenee dalla credenza. Che queste forme di religiosità non dovessero essere considerate estranee al riferimento cattolico alcuni dubitavano. L’Eurispes mostra come l’intervistato possa adattarsi a connotazioni diverse della sua «religiosità», ma ciò che conta è che non rifiuta (almeno oggi) la denominazione «cattolico-credente». Non casualmente il 12,2% che si sottrae a questa determinazione (i «no» alla domanda secca:«Lei è cattolico credente?») potrebbe corrispondere ragionevolemente alla somma del nucleo variabile (al di sotto del 10%) dei non-credenti, più i credenti non-cattolici o non cristiani, più una ridottissima percentuale di «dubbiosi».

Il dato Eurispes nega, sia pure problematicamente, alcune accezioni della formula «siamo minoranza», presenti nella cultura cattolica, e tentate da un ripiegamento comunitaristico e da una conseguente pastorale da «minoranza», appunto, senza respiro pubblico e senza universalismo. Il dato invita, inoltre, a ponderare meglio la dialettica di «fedeltà» e «disobbedienza» proposta ad effetto nel rapporto stesso e nei media: le percentuali delle risposte al questionario debbono essere, infatti, ponderate a partire dalla premessa che l’universo dei «cattolici» dell’Eurispes è, appunto, pari al 88% dell’universo di popolazione adulta.

Due esempi. La valutazione dell’intervento pubblico della Chiesa (se ecceda o meno il dovuto) e l’importanza attribuita ai sacramenti. Quanto al primo, anzitutto il campione si comporta in maniera diversa in rapporto alle questioni etiche, e alle questioni socio-politiche. Per l’intervento in ambito etico-bioetico il giudizio di «eccesso» riguarda un 42,5% a fronte di un 51,5% di favorevoli: 41,6% «nella giusta misura», 9,9% «meno di quanto dovrebbe». Per l’ambito civile-politico il 44,6% (a fronte del 48,8%: 37,6% più 11,2%). Ovvero, vi è maggiore «resistenza» di fronte agli interventi su devolution, scuola privata e simili, che non quelli in materia bioetica. Comunque, persiste favorevole un nucleo di opinione pubblica attorno al 50%. La percentuale fa intravedere, a mio avviso, una convergenza tra il nucleo della religione di Chiesa (più la regione diffusa primaria), di cui si è detto, e l’area di opinione pubblica che approva l’azione pubblica della Chiesa.

Quanto ai valori percentuali che misurano l’importanza data ai sacramenti (battesimo, confessione, eucaristia, cresima, matrimonio) essi relativamente uniformi, salvo il caso della confessione. Se sommiamo i valori per le due risposte «abbastanza» e «molta» abbiamo: 86,8% battesimo; 81,7% eucaristia; 78,3% cresima; matrimonio 85,3%. Il 65% per confessione. In altri termini oltre l’80%, che include una quota dei membri del religioso diffuso anche perimetrale, «attribuisce importanza» ai sacramenti. Il battesimo e il matrimonio-sacramento sono considerati «importanti» dalla quasi totalità di quanti si dichiarano cattolici-credenti (87,8%), comprese cioè le aree di non pratica e di ridotta credenza.

Abbiamo di fronte, dunque, qualcosa di più mobile, più a geometria variabile, più dinamico di quanto suppone l’enunciato corrente, che afferma: i «cattolici» (nell’accezione della maggioranza cattolica della popolazione italiana) apprezzano la Chiesa ma si riservano autonomia nel politico e nel privato (etico). In effetti il «consenso», ma dovremmo dire il «sentire cattolico», appare relativamente forte e costante (con alcune cadute) in quel corpo del 50%, tra praticanti assidui e semi-praticanti, che affiora dai dati. Non è poco, non è «minoranza». La variabilità dell’accordo e del disaccordo (sempre relativa a percentuali alte) con la Chiesa ha, piuttosto, un andamento segmentato e fluttuante. Nel riferimento vitale alla Chiesa il «popolo cristiano» del 87,8% non distingue schematicamente tra foro della coscienza e beni sociali, tra carità e politica, e sembra disposto a concedere molto alla legittimità della sua guida. Bisognerà sapervi riflettere.

Gli italiani e la Chiesa, una ricerca che fa discutere