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Convegno ecclesiale di Verona: per i cattolici un passo avanti

di Giuseppe SavagnoneUn arco di trent’anni divide il primo convegno delle Chiese d’Italia da quello che in ottobre sarà celebrato a Verona. Un tempo di grazia, che ha visto lo sviluppo di una riflessione e di una partecipazione da cui le nostre comunità ecclesiali sono state in qualche modo trasformate, anche se non sono mancati i problemi e le battute d’arresto.

La formula stessa del «convegno» ha costituito una felice novità nella prassi ecclesiale. È la risposta alla riscoperta, fatta dal Concilio, della centralità del «popolo di Dio» e della necessità di partire da qui per un’adeguata comprensione del mistero della Chiesa. Non la gerarchia, ma le diverse componenti della comunità, nella loro sinergia, costituiscono, infatti, il soggetto del con-venire che in questi appuntamenti nazionali si realizza. Vescovi, preti, diaconi, religiosi, religiose, laici e laiche di tutte le regioni d’Italia si incontrano per pregare, per confrontarsi, per maturare insieme linee progettuali condivise. Non all’insegna di un magmatico assemblearismo, ma nel rispetto delle differenze di carismi e di ministeri, che rendono la convergenza più ricca e più feconda, sottraendola alla logica omologante della massa e ponendo in primo piano la comunione tra i diversi.

Dalla prima, coraggiosa (ma anche contestata) esperienza del Convegno su «Evangelizzazione e promozione umana», fino a questa vigilia di Verona, se n’è fatta di strada! Nessuno oggi mette in dubbio, almeno in linea di principio, il metodo del «discernimento comunitario» come via privilegiata per una effettiva partecipazione di tutti – anche col contributo della critica – alla vita della comunità. Nessuno nega – almeno in linea di principio – il primato della dimensione missionaria nella pastorale e la necessità di praticare un ascolto attento delle istanze che vengono dal mondo.

Nessuno contesta – almeno in linea di principio – il ruolo fondamentale, su entrambi questi fronti, del laicato, che non a caso ha visto dei suoi rappresentanti chiamati, nei convegni celebrati finora, come relatori e come coordinatori di aree e di gruppi di lavoro. Certo, ciò che in linea di principio è stato acquisito non sempre lo è sul piano pratico. Qualcuno potrà anche, a buon diritto, sottolineare che, dopo trent’anni, ancora di fatto nelle Chiese italiane si registra il perdurare, in certi casi, di uno stile verticistico che mortifica la varietà delle voci, soffocando o rendendo impossibile una seria discussione e un franco dissenso; che in molte parrocchie perdura uno stile prevalentemente ritualistico e autoreferenziale, che preclude una vera dimensione missionaria; che la grande maggioranza dei laici non dispone ancora di sedi e strumenti adeguati per fare sentire la propria voce all’interno della comunità cristiana.

Ma si avrebbe torto se, in forza di queste considerazioni, si sottovalutasse l’importanza delle nuove prospettive apertesi in questo tempo alle nostre Chiese. La lentezza nell’attuazione non deve sorprenderci. Per una istituzione che ha duemila anni di storia, trent’anni sono ben poca cosa. L’importante è che ci sia un cammino. E questo c’è. Un esempio per tutti: la conflittualità di gruppi e movimenti – che aveva rischiato di offuscare la bellezza della loro fioritura e che spiega alcuni interventi «dall’alto» nel Convegno di Loreto – si è progressivamente attenuata e oggi cede il posto a un clima di maggiore rispetto reciproco, che potrebbe essere il preludio di una fattiva cooperazione. Sotto questo profilo, come sotto gli altri sopra indicati, il Convegno di Verona potrà costiture un ulteriore passo in avanti. Non per nulla esso è dedicato alla speranza. Quella che noi abbiamo in Dio. Ma forse anche di quella che Dio ha voluto avere in noi.

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