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Isolare Hamas, una scelta rischiosa

di Romanello CantiniQuest’anno la Pasqua ebraica ha coinciso con la Pasqua cristiana. E i pellegrini sono tornati numerosi nei Luoghi Santi dopo essere stati molto più rari negli anni scorsi per la paura della violenza e per le difficoltà di accesso. Si sono fidati di una pausa negli attentati e nelle rappresaglie che durava da mesi. Poi il giorno dopo Pasqua un ragazzo palestinese di sedici anni (quattro in meno di quelli necessari in genere a fare il servizio militare, almeno due anni in meno di quelli richiesti per ottenere la capacità giuridica di disporre di sé) si è fatto esplodere in una paninoteca vicino ad una stazione di autobus di Tel Aviv provocando nove morti.

È stato il primo attentato dopo un mese che il movimento Hamas ha preso il potere sull’Autorità palestinese e dopo un lungo periodo di questa strana bonaccia desolata in cui il massimo di freddezza fra Israele e Autorità palestinese ha camminato accanto al minimo di violenza terroristica, dopo anni in cui gli attentati avevano una cadenza quasi settimanale. Anche quest’ultimo attentato è stato rivendicato dalla Jihad islamica e non da Hamas, che pure mantiene tutta la sua intransigenza nel dichiarare di non riconoscere Israele. D’altra parte anche il neopremier israeliano Ehud Olmert ha deciso, al contrario delle reazioni automatiche del passato, di non rispondere immediatamente con rappresaglie.

In un momento in cui sembrano naufragate, almeno nel breve periodo, tutte le speranze di pace in Palestina, c’è tuttavia la sensazione che entrambi gli antagonisti esitino di fronte a decisioni su cui pure a parole hanno giurato e di cui forse in segreto misurano tutta la gravità. Hamas sembra paralizzata da un lato dalla paura di riprendere la via della violenza ora che deve risponderne non solo come organizzazione, ma anche come stato e dall’altro dal terrore dell’accusa di tradimento se abbandona le posizioni rigide su cui ha costruito la sua popolarità e vinto le elezioni. Il neogoverno israeliano che, sulle tracce dell’ultimo Sharon, ha rinunciato alla repressione su tutta la Cisgiordania dandosi l’obiettivo di ripiegare entro confini sicuri esita di fronte alla riapertura della caccia al terrorista ovunque che lo porterebbe verso la rioccupazione globale.

In realtà sia gli israeliani sia i palestinesi devono far fronte a debolezze inesorabili che costringono entrambi a limare le rispettive angolosità anche senza dirlo. Israele non può mantenere l’occupazione totale della Cisgiordania senza diventare di qui a non molti anni uno stato arabo per il prevalere della popolazione palestinese in forte crescita su quella ebraica. I tre milioni e mezzo di palestinesi che vivono in Cisgiordania non possono mantenersi senza recuperare un rapporto economico aperto con Israele o senza l’aiuto del resto del mondo. Finora ogni Palestinese ha ricevuto dall’aiuto internazionale circa 400 dollari all’anno che sono più della metà del suo reddito. La sospensione dell’aiuto internazionale potrebbe portare al licenziamento dei 150 mila funzionari dell’Autorità palestinese intorno a cui vive circa un milione di persone e soprattutto costringerà a mettere a tessera istruzione e assistenza sanitaria.

Aiutare il popolo palestinese senza finanziare direttamente Hamas è il compito difficile, ma non impossibile che deve assumersi la comunità mondiale. Senza questo rapporto viene meno ogni mezzo di pressione per costringere Hamas a riconoscere Israele. Al contrario lo si spinge ancora di più a praticare e a subire cattive compagnie. Finora il paese che più si è dimostrato generoso nel promettere aiuti al nuovo governo palestinese è proprio quell’Iran che oggi dice di voler cancellare Israele.