Opinioni & Commenti

Da Arezzo a Verona, Cristiani, cittadini nuovi

di Franco VaccariSi è chiuso ad Arezzo il quarto evento preparatorio al Convegno ecclesiale di Verona e forse è utile una prima breve riflessione. Si trattava di declinare la parola cittadinanza e, soprattutto, si dovevano cercare alcuni segni che indicassero il modo di viverla da cristiani. La Conferenza episcopale italiana, infatti, non ha chiesto ai luoghi scelti in Italia per celebrare gli ambiti tematici la realizzazione di convegni sui rispettivi temi, ma di trovare strade per viverli.

Così conviene porre attenzione su due aspetti intimamente uniti tra loro che ripropongono la riflessione di fondo sulla testimonianza della speranza: il rinnovamento del linguaggio e la vitalità di un patrimonio culturale condiviso. Due aspetti che forse discriminano i momenti di migliore riuscita dell’evento. Laddove si è usato un linguaggio capace di raggiungere il «cittadino contemporaneo» è avvenuto l’incontro, si è mosso l’interesse, gustata la scoperta: in una parola si è percepita la crescita della speranza, legata indissolubilmente al «fattore umano», alla concretezza e globalità dell’esperienza di relazione. Sullo sfondo dell’evento sta infatti una cultura dell’indifferenza, dell’isolamento e della chiusura: aprirsi è l’inevitabile passaggio per abbandonare tristezza e angoscia e giungere a una prospettiva di speranza. Aprirsi senza perdersi, senza smarrire l’identità e senza desiderio di conquista, aprirsi e, contemporaneamente, aprire luoghi e persone ugualmente immerse nel clima culturale della diffidenza e del pregiudizio, insomma ascoltarsi per ciò che si è e non per ciò che le campagne mediatiche rappresentano dell’altro: questo era ed è il nucleo centrale della sfida.

In tale prospettiva l’esigenza di trovare il linguaggio adatto ad incontrare l’altro è primaria. E il linguaggio non ha un solo registro, ma più suoni, rispettosi dell’uomo che non è «a una dimensione». Arte e spirito, economia e letteratura, politica e gioco si sono intrecciati nell’evento aretino sollecitando il ristabilimento di quell’unità della persona senza cui non può esservi unità culturale e civile. Lavorare al linguaggio è dunque l’impegno fecondo per sconfiggere ogni atteggiamento di chiusura intorno all’evento centrale della fede – il Cristo Risorto – che per definizione è pane spezzato per tutti. Detto con una parola dirimente, si tratta di togliere ogni elemento di «autoreferenzialità», di linguaggio da circolo chiuso – anche se il circolo comprende milioni di persone – che consola e rassicura chi lo usa. Una comunicazione corretta, infatti, si pone il problema della comprensione da parte del destinatario e, nel contempo, guarda incessantemente al contenuto che intende comunicare. Un lavoro del genere è quello di cui abbiamo tutti bisogno.

Infatti genera un reale rinnovamento. Non solo perché diventiamo nuovi davanti agli altri, ma perché, compiendo tutto ciò, accediamo in modo nuovo al patrimonio di fede che possedevamo forse in maniera stanca e ripetitiva. Perché anche noi cristiani siamo quei «cittadini contemporanei» che, senza accorgersene, mutano linguaggio, stili di vita, cultura. Un processo di allontanamento dalla fede? No. Accolto in questa prospettiva è paradossalmente capace di esprimere il vero riavvicinamento e, con questo, lo stupore per un dono inesauribile.

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