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La libertà della scienza si esalta nel rispetto dell’uomo

di Giuseppe SavagnonePrima di tutto, i fatti. Il ministro per l’Università e la ricerca, Fabio Mussi ha dichiarato, il 30 maggio, di aver ritirato il sostegno alla dichiarazione etica contro lo sviluppo nell’Unione europea sulle cellule staminali embrionali, firmata nel novembre scorso dall’Italia insieme a Germania, Austria, Polonia, Malta e Slovacchia.

Non intendiamo soffermarci sulle polemiche suscitate da un gesto che gli stessi colleghi di governo del ministro hanno criticato, richiamando la necessità, in questioni così delicate, di un confronto e di una presa di posizione collegiale. Ciò che in questa sede ci preme discutere è il principio, a cui il ministro si è ispirato e che da molti oggi è condiviso, secondo cui non sarebbe giusto porre limiti, neppure di ordine etico, alla ricerca scientifica, in campo bio-medico come in qualunque altro. A prima vista si tratta di una tesi del tutto convincente. Cosa può esserci di male in uno sforzo teso alla conoscenza? Il sapere umano non va bloccato in nome di pregiudiziali di alcun genere. Tanto più che esse sembrano richiamare antichi tabù di tipo religioso, sul solco di un’antica contrapposizione fra la fede e la scienza.

Ma le cose stanno veramente così? A far nascere il dubbio basterebbe la semplice considerazione che, con l’avvento della scienza moderna, il metodo della ricerca non è più quello meramente contemplativo, in uso ai tempi di Aristotele. Lo scienziato non si limita, ormai, ad osservare i fenomeni ma, mediante gli esperimenti, interviene attivamente per modificare la realtà che studia, allo scopo di comprenderne meglio il funzionamento. In biologia questo è particolarmente evidente. Il ricercatore non attende certo che la cavia si ammali casualmente, per registrare il decorso della patologia: inietta lui stesso il virus che provoca le modificazioni volute nell’organismo dell’animale. Oggi vengono fatti addirittura nascere dei topi già malati di cancro! Per non parlare dell’uso sistematico della vivisezione, fortemente contestata dalla organizzazioni animaliste e difesa dagli scienziati in nome dei diritti della scienza.

Qui non intendiamo prendere posizione su questo problema. Ci limitiamo a constatare che la sua stessa esistenza dimostra che la ricerca scientifica, almeno in campo biologico, non è a priori innocente, non può essere, cioè, identificata con un puro e semplice sforzo di conoscere, ma finisce spesso per incidere pesantemente sul destino di esseri viventi, provocando in essi sofferenze, menomazioni, o addirittura la morte.

Tutto ciò può anche essere ritenuto legittimo. Ma bisogna valutare i costi. E se per caso questi comportassero il sacrificio di esseri umani, nessuno potrebbe seriamente affermare che essi sono sostenibili, sia pure in vista di ipotetiche scoperte che guarirebbero o allevierebbero terribili malattie. Tanto più se si profilassero vie alternative per raggiungere gli stessi obiettivi.

Ora, nel caso delle cellule staminali embrionali, il costo è la vita di embrioni che, stando al loro Dna, appartengono alla specie umana. C’è chi dice che, malgrado ciò, non vanno considerati persone. Ma questa separazione del concetto di persona da quello di essere umano è stata troppe volte usata allo scopo di discriminare i più deboli – gli schiavi, gli indios, i neri, le donne – per essere ancora accettabile. «Le magnifiche sorti» della scienza non possono affermarsi sulla pelle di esseri della nostra stessa specie, solo perché essi non hanno voce. Quando poi ci sono altre cellule staminali, cosiddette «adulte» – per esempio quelle tratte dal cordone ombelicale –, che secondo molti scienziati si prestano egualmente alla ricerca e il cui prelievo non determina alcun danno a nessuno. La libertà della scienza non può essere menomata, ma solo esaltata, da questo senso di responsabilità verso l’uomo. E questa non ci sembra fede, ma semplicemente ragione.

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