Opinioni & Commenti

Caso D’Elia, questione di sensibilità

di Alberto MigoneLo abbiamo scritto altre volte: nessuno può essere inchiodato per sempre al suo passato, perché umanamente, e ancor più cristianamente, la redenzione è sempre possibile, purché lo si voglia e i segni di questo cambiamento siano chiari e inequivocabili.

In quest’ottica va letto e giudicato il caso di Sergio D’Elia, esponente di Prima Linea, condannato a trent’anni di reclusione per concorso morale nell’uccisione a Firenze nel 1978 dell’agente di polizia Fausto Dionisi. Dopo aver effettivamente scontato un lungo periodo di detenzione, D’Elia si è dedicato ad opere di impegno sociale, fondando «Nessuno tocchi Caino», l’associazione che si batte contro la pena di morte. In punto di diritto quindi egli è ora un cittadino che ha pagato il suo debito ed ha riacquistato tutti i diritti che la Costituzione assicura.

Il problema quindi non è giuridico: attiene ad una sfera più intima, tocca la sensibilità personale ed è così più cogente ed esigente.

Noi pensiamo che chi si è reso in varia misura responsabile di crimini tanto efferati, proprio per avvalorare ancor di più il suo cambiamento, non dovrebbe assumere incarichi istituzionali che danno visibilità e conferiscono potere, come è indubbiamente l’elezione a deputato e soprattutto la nomina a segretario della Presidenza della Camera perché questo riapre polemiche che dividono e contrappongono, in un tempo che tanto necessita di concordia, ma soprattutto risveglia dolori mai del tutto sopiti.

A Sergio D’Elia è – a nostro parere – ora chiesto ancora qualcosa, una rinuncia che non si può imporre, ma auspicare sì: per rispetto ai familiari dei caduti per fatti di terrorismo e particolarmente alla vedova e alla figlia di Fausto Dionisi a cui, senza alcuna colpa, fu chiesto tutto.