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Terra Santa, la politica delle armi non riesce a far prevalere l’arma della politica

di ROMANELLO CANTINIIn ogni conflitto l’esercizio di contare le vittime da una parte e dall’altra è sempre un po’ assurdo e un po’ osceno. Ogni vita umana è un assoluto. Contare le esistenze soppresse è sommare l’infinito con l’infinito. Guardare al numero dei morti anziché alla singola morte è un po’ sputare sul valore della vita di ciascuno e cercare nella ragioneria del più e del meno una assoluzione di fatto per chi ha ucciso ma ucciso meno. Tutto questo è sacrosanto sul piano dei principi. Tuttavia, quando la politica non riesce a liberarsi dall’uso della violenza, conta, se non altro a fini di immagine e di consenso, la misura o la dismisura di questo uso della forza.Questa moderazione dovrebbe valere soprattutto per Israele. Chi ha amato lo stato sorto dopo l’ultima guerra mondiale come indennizzo all’Olocausto lo ha fatto perché ha visto in Israele la zattera di una nazione di vittime. E se Israele non ha più paura della sproporzione fra le vittime che subisce e le vittime che fa vuol dire anche che non ha timore di arrecare un colpo alla sua ragione d’essere e alla sua identità più profonda.

Sono cinque anni che i guerriglieri palestinesi si applicano a lanciare sulle colonie e sul territorio israeliano razzi tanto più fitti quanto imprecisi proprio perché fatti, per così dire, in casa con metodi artigianali. Dal primo gennaio 2001 questi missili da bricolage palestinesi hanno provocato la morte di 15 israeliani fra cui due soldati.

Negli ultimi cinquanta giorni sono stati uccisi dai raid aerei, dal tiro dei missili e dagli assalti dei blindati israeliani nella striscia di Gaza, secondo dati di organizzazioni governative ebraiche, 40 palestinesi di cui due terzi civili: «danni collaterali» (come si dice con un ghiaccio eufemismo da polizza di assicurazione) della caccia a presunti terroristi e del bombardamento delle cosiddette postazioni dei razzi.

Nessuno può sostenere che lo stillicidio dei razzi palestinesi sul territorio israeliano sia un semplice fuoco di artificio, ma è chiaro che lo stato israeliano appare troppo incurante anche solo di una economia delle vite umane nel rispondere ad una minaccia che in forme diverse si perpetua da decenni e che, sia detto fra parentesi, non è mai stata fermata dalle ritorsioni.

È comprensibile l’apprensione israeliana per il sequestro del suo soldato Gilad Shalit. È curiosa anche la pretesa di Hamas di considerare il soldato catturato un «prigioniero di guerra» quando poi si protesta giustamente contro i metodi di guerra usati dal governo israeliano.

E tuttavia sulla sponda opposta al soldato rapito ci sono nelle prigioni israeliane 9400 palestinesi fra cui 128 donne e 300 adolescenti detenuti in base a generiche ragioni di sicurezza e senza un capo di imputazione preciso.

Israele ha tutto il diritto di chiedere al governo di Hamas il riconoscimento dello stato ebraico e la rinuncia agli atti terroristici.

Ma resta la domanda se le uccisioni quasi quotidiane di civili palestinesi, l’attacco alla centrale elettrica di Gaza, il danneggiamento del suo acquedotto insieme al taglio dei contributi dovuti e all’assedio di una zona con una densità di popolazione pazzesca indeboliscano il governo di Hamas oppure, come tutto lascia credere, rafforzino nella rabbia e nella esasperazione proprio quell’estremismo che si vuol combattere.

Sono quarant’anni che gli israeliani provano a convertire i palestinesi alla moderazione con le armi. E sono quarant’anni che la politica delle armi non riesce a far prevalere l’arma della politica. Ma Israele insiste nel ricorso esclusivo alla forza anche quando dalla parte opposta giungono segnali insufficienti certo, ma significativi, per una logica diversa (una tregua di fatto negli attentati che dura ormai da un anno, il documento comune fra Al Fatah e Hamas in cui, seppure senza ammetterlo, si riconosce di fatto Israele). Sono questi i segnali di fumo che non hanno risposta mentre invece trovano una reazione immediata e sproporzionata i soliti missili.