Opinioni & Commenti
L’undicesimo comandamento: «Non avvelenerai né i cieli, né le acque, né la terra»
La Chiesa italiana, attraverso la Commissione episcopale per i problemi sociali e la Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo, ha promosso per la prima volta a livello nazionale la «Giornata per la salvaguardia del creato», che si svolgerà il prossimo 1° settembre sul tema «Dio pose l’uomo nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse (Gn 2,15)».
D’altronde, se Jahwe avesse aspettato il XXI secolo per darci il Suo Decalogo, senza dubbio avrebbe inserito il Comandamento «Non avvelenerai né i cieli, né le acque, né la terra». Invece, esso non c’é: per quanto potremmo forse ricavarlo interpretando bene l’«Onora il padre e la madre» (che riguarda in realtà tutto il prossimo), il «Ricordati di santificare le feste» (cioè non ridurre tutto il tempo a occasione di guadagno), il «Non uccidere» e il «Non rubare». Ma se dovessimo interpretare rigorosamente questi quattro Comandamenti, che cosa resterebbe della nostra Gloriosa e Felice Civiltà Occidentale fondata sull’individualismo e sull’espansione coloniale dei secoli XVI-XIX?
Abramo e Mosè non avevano tempo per l’ambiente: anzi, dovevano combattere contro di esso. Del resto, fino a pochi decenni fa l’uomo ha mantenuto la convinzione non solo che le risorse ambientali fossero inesauribili, ma anche che la natura fosse matrigna almeno quanto era madre, e che bisognasse combattere continuamente contro di lei per assoggettarla e convincerla a restar entro i suoi limiti. E oggi la rivoluzione climatica che secondo alcuni è già in atto ci riconduce per molti versi ai tempi nei quali il mondo che ci circondava deserto o foresta o palude o fiume o mare che fosse costituiva un costante pericolo: inducendoci ad abbandonare la pericolosa illusione otto-novecentesca d’una natura del tutto assoggettata alla scienza, alla tecnica e al progresso.
Gesù non ci dice nulla, almeno direttamente, sul rispetto dovuto agli animali e alla natura. Per questo, noi cristiani abbiamo dovuto aspettare la rivoluzione francescana: ma da essa, forse, solo oggi siamo in grado di ricavare il dovuto insegnamento. Da qui la necessità di rileggere la scrittura da una parte, di adeguarne l’esegesi alle nuove esigenze dall’altra. Non si tratta di scimmiottare il buddhismo e tantomeno di riformare la Chiesa in modo da renderla più o meno compatibile con le pastorellerie predicate dai profeti del new age. Si tratta di porsi sul serio in ascolto delle esigenze del pianeta: non solo dell’atmosfera inquinata e dell’acqua avvelenata e ormai insufficiente per tutti, ma soprattutto della gente i quattro quinti dell’umanità che il nostro sfruttamento intensivo delle ricchezze del suolo e del sottosuolo hanno spinto alla miseria e alla fame nel momento stesso che il modello del nostro opulento sviluppo la induceva a desiderare a sua volta sempre maggiori ricchezze.
La battaglia per l’ambiente è oggi, anzitutto, una battaglia per la giustizia: per un domani nel quale i poveri non siano più costretti dai ricchi a pagarsi perfino l’aria e l’acqua, come invece sembra ogni giorno più chiaro che saranno destinati a dover fare. Anche il terrorismo è figlio, sia pur indirettamente, di questo disagio. Chiunque anteponga lo «sviluppo» e la «produzione di ricchezza» alla necessità di ristabilire l’equilibrio ambientale e di ridistribuire la ricchezza stessa e la sua gestione in modo che lo sfruttamento da parte dei pochi cessi di provocare la miseria e la disperazione dei troppi, oggi è il vero nemico del cristianesimo e dell’umanità: e lo è anche se costruisce grandi chiese e agita di continuo la croce e il Vangelo. Le cose oggi stanno così e non ci sono scuse che tengano.