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La difficile via della pace

di Romanello CantiniUna volta per morire in guerra bisognava diventare soldato. Oggi basta essere un bambino ad Haifa o una donna a Beirut. Una guerra che combatte soprattutto civili è l’aspetto più insopportabile del conflitto fra Israele e Libano. E, al di là di questo sacrificio di vittime innocenti, c’è, da un lato, il dramma degli abitanti delle città israeliane costretti a vivere nei rifugi e, dall’altro, ci sono la distruzione di un Paese appena ricostruito, la destabilizzazione dell’unico tentativo di democrazia e di pluralismo del mondo arabo, il ripetersi della fuga in massa dei profughi che, al di là delle considerazioni umanitarie, ha già sconvolto in passato la fisionomia di un Paese che quarant’anni fa aveva una risicata maggioranza cristiana e che oggi ha una schiacciante prevalenza musulmana.

Sullo sfondo c’è il rischio di un allargamento del conflitto con la Siria che già minaccia di intervenire se Israele invade il Libano in profondità e con l’Iran che è il grande padrino degli hezbollah libanesi ora sotto assedio. La diplomazia cerca di chiudere un conflitto prima che sia troppo tardi. Ma, nonostante le preoccupazioni di facciata, gli intenti non sono troppo unanimi. Gli Stati Uniti, come in fondo è accaduto nelle precedenti guerre affrontate da Israele, cercano di spegnere l’incendio solo quando Gerusalemme avrà conquistato un notevole vantaggio sul terreno e soffrono, però, in questo periodo di una mancanza di veri interlocutori nel mondo arabo. L’Onu e l’Europa insistono soprattutto su una tregua immediata, ma suscitano la diffidenza di Israele che li accusa di passare sotto silenzio la minaccia terrorista.

Qualche sprazzo di luce si è aperto con la dichiarazione degli hezbollah di accettare la mediazione del governo libanese per lo scambio dei due soldati israeliani la cui cattura ha innescato la crisi. Da parte del governo israeliano è arrivata la disponibilità ad accettare nel Sud del Libano un contingente di pace delle Nazione Unite anche a guida Nato. Tuttavia, se lo scambio dei prigionieri non appare alla fine molto improbabile, visti anche i numerosi esempi di questi baratti accettati in passato da Israele, molto più difficile appare lo sgombero o il disarmo delle milizie sciite dagli hezbollah nel Sud del Libano che pure è previsto nei piani di tutti per la soluzione definitiva di una crisi che si trascina da quasi trent’anni.

Hezbollah non è solo un battaglione di 600-800 guerriglieri, ma anche una temibile forza politica. Hezbollah da solo o alleato con il partito sciita Amal ha riportato la maggioranza in tutto il Libano del Sud nelle ultime elezioni amministrative e nelle ultime elezioni politiche. Nel marzo 2005, quando decine di migliaia di libanesi scendevano in piazza per chiedere il ritiro delle truppe siriane dal Paese dopo l’assassinio di Rafiq Hariri, hezbollah è stato capace di far sfilare centinaia di migliaia di persone nelle contromanifestazioni di appoggio alla Siria.

Con le sue iniziative assistenziali e per la sua battaglia contro l’occupazione israeliana il «Partito di Dio» (hezbollah) ha conquistato molte simpatie nel Paese. E il governo in carica, cosciente della forza degli hezbollah, non ha il coraggio né di approvare né di condannare le loro azioni. Difficilmente gli hezbollah, che secondo il loro capo Hassan Nasrallah dovrebbero combattere Israele «per un milione di anni», possono essere disarmati dal fragile governo libanese senza una nuova guerra civile. In passato Nasrallah ha rifiutato le proposte di disarmare sia in cambio di una grossa fetta di potere politico sia con la promessa dell’assorbimento dei suoi guerriglieri dentro l’esercito regolare. La deliberazione dell’Onu I559 che impone il disarmo degli hezbollah ha qualche speranza di essere attuata senza ricorrere a misure di coercizione solo con la pressione della Siria e dell’Iran.

Ma entrambi questi Paesi sono esclusi dalla conferenza di Roma e bisognerà affidarsi alla poco probabile seduzione che Egitto e Arabia Saudita possono esercitare nei confronti di Damasco e Teheran. Anche un disarmo che venisse imposto dal governo libanese con l’aiuto di un forte contingente dell’Onu (possibilmente non molto inferiore ai 20.000 uomini) non sarebbe certamente indolore. Il contingente dell’Onu (Unifil), che opera nella zona da quasi trent’anni con semplici compiti di osservazione, ha avuto in proporzione il costo umano più alto di tutti gli interventi del palazzo di Vetro: oltre 250 uomini caduti in una delle zone più calde del pianeta.

L’obiettivo del cessate-il-fuoco appare per il momento il risultato non solo più importante per porre termine allo stillicidio delle vittime, ma anche il più politicamente perseguibile. La ripresa del controllo del Sud del Libano, anche se indispensabile per dare sicurezza a Israele e per evitare il ripetersi delle crisi ai confini con il Libano, appare operazione più complessa e di lunga durata legata a una stabilizzazione dell’assetto politico libanese e a un raffreddamento di una tensione oggi troppo rovente in tutta l’area mediorientale.

In questi giorni, il Papa ha invitato soprattutto a pregare per la pace. E lo ha fatto perché crede naturalmente nella preghiera, perché rivolgersi a Dio è un atto che unisce fedi diverse, perché la preghiera è anche un’alternativa alla condanna che rischia sempre di alimentare il seme dell’odio. Ma forse lo ha fatto perché, in questa situazione così drammatica e difficile, teme che da soli anche gli uomini di buona volontà finiscano per fallire.

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