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Libano, via il «blocco» israeliano. Un passo faticoso sulla via della pace

di Romanello Cantini Dopo alcune ore, in cui è sembrato che la pausa nel conflitto israeliano-libanese fosse troncata da una svolta drammatica con le dichiarazioni del ministro degli Esteri di Beirut – secondo le quali il Libano avrebbe forzato il blocco aeronavale israeliano – Gerusalemme ha tolto l’assedio allo spazio aereo libanese; continuerà invece a imporre il blocco navale sul Libano fino a quando le truppe Unifil non saranno dispiegate lungo le coste del Paese dei Cedri.

Il governo israeliano può sostenere di non avere ceduto a nessun ultimatum, perché il pattugliamento delle coste e degli aeroporti libanesi sarà affidato alla forza di pace e, soprattutto, alla marina tedesca. Il blocco aeronavale è, per il diritto internazionale, un atto di guerra e il suo prolungamento avrebbe aggiunto a un Libano già prostrato dalla guerra un danno di qualche miliardo di dollari al mese, oltre a costituire uno sbarramento pesante sulla via della ricostruzione.

Tuttavia, la sorveglianza delle vie d’acceso al Libano costituisce la coda importante di un’enigmatica guerra di cui ancora non si sa chi è il vinto e chi il vincitore; ammesso che una guerra, di cui per ora si sanno solo i morti e le distruzioni, possa averne uno. E c’è ancora, da una parte e dall’altra, il tentativo di vincere almeno in parte al tavolo della pace.

Il traballante governo israeliano è consapevole che i trentatré giorni di guerra e i quasi duecento morti di parte ebraica gli possono essere perdonati solo se è in grado di dimostrare di aver assestato un colpo mortale o almeno paralizzante al nemico Hezbollah. Ma, nonostante le numerose vittime fra i suoi guerriglieri, Hezbollah sembra ancora vivo come prima in fatto di organizzazione militare. Fino all’ultimo giorno di guerra, centinaia di razzi hanno continuato a piovere sul Nord di Israele, nonostante l’offensiva israeliana, che chiaramente non è riuscita a far pulizia delle postazioni e delle rampe di missili nel Sud del Libano.

Se le vecchie armi di Hezbollah non sono state eliminate bisogna almeno evitare che al suo arsenale se ne aggiungano di nuove, visto che la guerra ha dimostrato che il “Partito di Dio” è già in possesso non solo di armi numerose, ma anche di armi sempre più moderne e sofisticate con missili a lunga gittata e mezzi anticarro. In concreto, per il governo israeliano, bisogna evitare che dall’Iran attraverso la Siria arrivino ai libanesi filosiriani pezzi di scorta e nuove armi.

Per quanto possa apparire una motivazione sconvolgente nella evidente sproporzione fra mezzi e fini, anche durante il mese di guerra, il governo israeliano ha tentato di giustificare il bombardamento di strade, ponti e porti libanesi con la necessità di impedire il transito di rifornimenti ad Hezbollah, provenienti dall’Iran e dalla Siria. Una volta finite le operazioni militari, il governo di Gerusalemme, per lo stesso motivo, ha chiesto che la forza di pace fosse dispiegata anche ai confini della Siria senza mettere in conto né la reazione di Damasco, né l’impossibilità di controllare ogni infiltrazione in una frontiera, che circonda l’intero Libano per migliaia di chilometri.

In realtà, la cessazione del blocco aeronavale e la delega alla forza di pace di un compito, che finora Israele ha avuto la certezza o la presunzione di poter assolvere da solo, segna un altro passo faticoso sulla via, che Israele sta cominciando a percorrere per compensare la sua finora presunta autosufficienza in termini di sicurezza con il ricorso alla garanzia e alla mediazione delle istanze internazionali a cominciare dall’Europa.

È evidente, come è stato autorevolmente notato in questi giorni, che se è impossibile mettere una catena di soldati intorno alla Siria, è invece possibile monitorare attraverso la tecnologia l’eventuale movimento di armi. E, in questo caso, le contromisure prese dalla comunità internazionale sarebbero con tutta probabilità meno sanguinose, ma anche meno inefficaci di una risposta israeliana come quella di quest’estate.

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