Opinioni & Commenti

Cosa ci aspettiamo dal convegno di Verona

di Giuseppe SavagnoneL’approssimarsi del convegno di Verona, ormai imminente, rende sempre più attuale un interrogativo che può apparire un po’ impertinente, ma con cui è bene confrontarsi: a che cosa serve un convegno ecclesiale nazionale? E, sulla scia del primo, un altro se ne pone, ancora più provocatorio, ma a cui bisogna avere il coraggio di lasciare spazio: l’organizzazione di questo convegno in particolare è tale da rendere possibile la comunicazione necessaria perché esso serva a qualcosa?

I due problemi sono strettamene connessi e perciò, senza la pretesa di dare una risposta esauriente, li affronteremo insieme. La prima cosa da dire, forse, è che l’appuntamento di Verona, così come gli altri che l’hanno preceduto, non è valutabile solo in termini di efficacia. Esso è in se stesso, a prescindere dai suoi frutti pastorali, al di là delle strategie comunicative che lo caratterizzano, una grande esperienza di comunione che assume un valore simbolico dell’unità di tutte le Chiese d’Italia. Un evento, insomma, che ha in se stesso il proprio significato, tale da giustificare gli sforzi, il tempo, il denaro spesi per realizzarlo.

Questa considerazione, tuttavia, non può esimerci dal valutare la questione anche in termini di efficacia pastorale. E qui sicuramente si deve registrare un complesso gioco di luci e di ombre. Le prime non mancano. Il convegno in realtà non si riduce al suo momento celebrativo. Già in quello preparatorio, ben più lungo e articolato, le diverse diocesi sono state coinvolte in un confronto tra le loro diverse componenti, in una riflessione, in uno sforzo di sintesi, che sono stati essi stessi un con-venire, un uscire, cioè dalla routine, dalla settorialità, dalla incomunicabilità a cui talvolta la pastorale ordinaria sembra soggiacere. Non si può valutare il convegno di Verona senza tenere conto della ricchezza di comunicazione che tutto ciò ha comportato e ancora, in questi ultimi giorni di preparazione, sta comportando.

Non mancano, tuttavia, neppure le ombre. Proprio perché esige per sua natura un’apertura alla sinodalità, la fase preparatoria di un evento come questo evidenzia spietatamente le carenze che, su questo piano, pesano ancora oggi su tante nostre comunità ecclesiali. Nella misura in cui l’effettiva comunicazione – tra laici e pastori, tra gruppi e movimenti ecclesiali, tra presbiteri, tra presbiteri e vescovi, tra vescovi – nella vita quotidiana delle nostre Chiese presenta a volte delle zone oscure, anche la preparazione del convegno ha potuto essere interpretata talvolta, invece che come un’importante occasione di riflessione e di confronto, alla stregua di una fastidiosa scadenza burocratica, a cui far fronte riempiendo questionari e stilando relazioni «ufficiali». A tanti messaggi, frutto di consapevolezza e ricchi di stimoli, che vengono dalle comunità dove l’appuntamento di Verona ha suscitato verifiche, seri interrogativi, intuizioni costruttive, se ne alternano allora altri che si limitano a fornire dati più o meno «addomesticati» e a ripetere formule stereotipe, in omaggio a una richiesta proveniente dai vertici.

Si spiega così la limitata ricaduta che raduni di vasta portata come questo di Verona – malgrado la bellezza e la solennità del loro momento celebrativo – hanno poi sulle singole comunità diocesane. I limiti di comunicazione tra la vita ecclesiale reale e il convegno si traducono simmetricamente in quelli tra il convegno e la vita ecclesiale. Forse nella stessa fase celebrativa si dovrebbe tenere conto di questo problema, potenziando il momento dell’ascolto e lasciando spazi maggiori alla reciprocità della comunicazione. Riconosciamo che non è facile farlo, senza cadere in logiche assemblearistiche e demagogiche, del tutto estranee alla natura ecclesiale dell’evento. Ma, se non si accetta di correre qualche rischio in questo senso, si va incontro a quello, opposto, che le voci della base subiscano troppi filtri e che un certo verticismo prevalga sull’effettivo discernimento comunitario. Si tratta, probabilmente, di cercare un equilibrio, senza rinunziare a priori alla speranza di trovarlo. E del resto, non è forse la speranza il tema del convegno?

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