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Iraq e Medio Oriente, l’incognita Damasco

Romanello Cantini In un Iraq sempre più dilaniato dalla violenza tra sciiti e sunniti – le autobomba del 23 novembre hanno provocato 202 morti nel quartiere-roccaforte sciita di Sadr City a Baghdad, la strage più grave dalla caduta del regime di Saddam Hussein – riprendono quota le relazioni diplomatiche tra Siria e Iraq. Una novità importante nella tormentata regione mediorientale, dove restano aperte e gravi le crisi a Gaza e in Libano, che potrebbe contribuire ad aprire inaspettati fronti di dialogo.

Domenica 19 novembre, Walid Al Moallam, il ministro degli Esteri siriano, è giunto a Baghdad per riallacciare le relazioni diplomatiche fra il suo Paese e il governo iracheno. Era il tempo di una generazione che Damasco e Baghdad non si parlavano. Le relazioni erano state interrotte da Saddam Hussein ventiquattro anni fa, quando il regime siriano si era schierato dalla parte di Khoemeni nella lunga e sanguinosa guerra del Golfo. I rapporti fra Saddam Hussein e Hafez Assad, il padre dell’attuale presidente siriano, rimasero così tesi che, quando Bush senior scatenò, quindici anni fa, la prima guerra contro l’Iraq per la questione del Kuwait, la Siria aggiunse le proprie truppe alla spedizione americana.

Dati questi precedenti non era difficile immaginare che, anche se la Siria ha disapprovato questa seconda guerra in Iraq, la destituzione di Saddam Hussein non doveva poi dispiacerle troppo. Ed ecco, infatti, che, con il riconoscimento del nuovo governo iracheno uscito dalla guerra, il regime siriano, pur dissentendo dall’intervento americano, ne apprezza in fondo il suo prodotto e dichiara implicitamente la legittimità di chi è bersaglio di una guerriglia sempre più sanguinosa.

Fino a ieri, il regime di Damasco è stato accusato dagli Stati Uniti di sostenere il terrorismo in Iraq soprattutto permettendo il passaggio di nuove reclute per la guerriglia attraverso i suoi confini; nonostante il governo siriano abbia sempre ricordato l’impossibilità di tamponare ogni metro di una frontiera che attraversa per seicento chilometri il deserto. Nella situazione sempre più incontrollabile e violenta dell’Iraq, dove ormai si marcia al ritmo spaventoso di oltre tremila morti al mese e dopo la sconfitta di Bush alle elezioni di medio termine, l’improvvisa apertura di credito della Siria al governo iracheno è sembrata offrire una boccata di ossigeno alla ricerca di un’uscita politica dal pantano iracheno, quando ormai la soluzione militare appare impossibile sul terreno e sempre più orfana di padri, perfino, a Washington.

Ma subito a ridosso di questa apertura ecco l’assassinio di Pierre Gemayel, il giovane ministro cristiano del governo libanese, il figlio di un Gemayel che è stato per oltre dieci anni presidente della Repubblica, con uno zio che fu anch’egli assassinato ventiquattro anni fa, dopo venti giorni che era stato eletto presidente, e con un nonno che appartiene al mito della fondazione della Falange e del Libano indipendente dell’ultimo dopoguerra.

L’opinione pubblica antisiriana ha attribuito subito questo delitto, dal significato così altamente simbolico, alla Siria a cui è già stato sommariamente imputato l’omicidio dell’ex premier Rafic Hariri nel febbraio dell’anno scorso, insieme ai quattordici omicidi politici che si sono contati nel Paese negli ultimi due anni. Per lo più, questo delitto cade nel momento in cui il governo libanese è in crisi per le dimissioni di cinque ministri dovute ai dissensi sul Tribunale internazionale che dovrebbe indagare sull’assassinio Hariri.

La Siria ha proclamato la sua assoluta estraneità al delitto Gemayel. E, tuttavia, nella doccia fredda fra aperture e chiusure, fra messaggi contraddittori e sospetti trasversali, fra problemi interni del Libano e problemi esterni dell’area mediorientale, tutte le domande rimangono aperte. C’è un inveterato doppio gioco della Siria? C’è una lotta interna allo stesso regime siriano? C’è un’offerta di una mano in Iraq, in cambio della mano libera nel Libano? C’è addirittura il sabotaggio di chi vede il riavvicinamento della Siria al nuovo regime iracheno e vuole impedirlo?In questa selva di domande, tutte possibili, la risposta meno impotente è in fondo quella di andare a vedere alla prova dei fatti le concrete intenzioni siriane. Anche perché non tanto l’Iraq, ma nemmeno il Libano si salva, se non si scioglie l’enigma di Damasco con una società sempre più spaccata di netto a metà fra antisiriani e filosiriani.