Opinioni & Commenti

L’eutanasia mediatica di Piergiorgio Welby

di Adriano Fabrisdocente di etica della comunicazione all’Università di Pisa

Piergiorgio Welby è morto il 20 dicembre alle 23.40, dopo che Mario Riccio, anestesista rianimatore a Cremona, gli ha staccato il respiratore, dopo averlo sedato. Si conclude così una vicenda che ha visto Piergiorgio Welby, malato grave di distrofia, chiedere di morire. Il lungo dibattito, anche politico, che ne è nato, è stato seguito con particolare attenzione dai media nazionali. A riguardo il SIR ha chiesto un commento ad Adriano Fabris, docente di etica della comunicazione all’università di Pisa.

I media, come si sa, non solo devono dare informazioni, comunicare le notizie, selezionare i temi su cui le persone possono riflettere. I media offrono prospettive sulle cose. Interpretano i fatti, sviluppano idee e le propongono al pubblico dibattito. A volte, però, l’interpretazione dei fatti prende il sopravvento sull’onesto riferimento alle cose, e il giornalista si trova a presentare le proprie opinioni come se fossero accadimenti reali. Le idee diventano allora affermazioni ideologiche, che entrano fra loro in conflitto. Il tutto davanti agli occhi del lettore o dello spettatore: il quale assiste allo scontro e poi, magari, riconosce come vicina alle proprie opinioni l’una o l’altra delle tesi in campo, dimenticandosi che non di tesi si tratta, ma di vicende che, in ultima istanza, riguardano uomini in carne ed ossa.

Questo è ciò che è accaduto per la vicenda che riguarda Piergiorgio Welby. I fatti sono ormai ben noti. Malato grave di distrofia, lucido nelle sue scelte e nei suoi interventi, Welby ha deciso di fare leva sulla sua condizione per iniziare una battaglia politica concernente la fase terminale della vita, e in particolare la regolamentazione di essa in termini giuridici e biomedici. Come presidente dell’Associazione intitolata a Luca Coscioni e come attivista del Partito Radicale egli ha scritto al presidente della Repubblica chiedendo che venga concesso ai sui medici curanti di somministrargli una sedazione e di staccare la spina della macchina che lo tiene in vita. Ne è nato un acceso dibattito che ha portato a una serie di pronunciamenti della Magistratura tutt’altro che univoci.

Fin qui i fatti. Sui quali i mediaa sono intervenuti in varie forme. Vale la pena perciò di analizzare il modo in cui soprattutto la stampa ha seguito la vicenda. C’è da dire anzitutto una cosa: che con la sua uscita pubblica – la lettera indirizzata al capo dello Stato – Welby ha scelto di entrare nel circuito mediatico. Ciò vuol dire che ha accettato che la sua sofferenza venisse resa pubblica e fosse, per dire così, esibita. Da questo punto di vista devono essere lette le immagini, ormai divenute di repertorio, della camera in cui Welby vive, del suo corpo inerte sul letto, della macchina alla quale è attaccato, della moglie che si affaccenda vicino a lui. Si tratta di immagini che finiscono per trasformare il dolore in uno spettacolo, il quale viene mostrato sui giornali e proposto nei Tg all’ora di cena. Si tratta di immagini che, certo, possono indurre alla riflessione sulla fragilità della vita e alla compassione nei confronti di un essere umano sofferente. Ma che, così sovente ripetute, rischiano di indurre assuefazione. Tanto più che, appunto, sono immagini: non molto diverse da altre immagini che possono essere proposte nei film e nella fiction.

Certo, Welby è probabilmente consapevole della logica che contraddistingue i media e del carattere di irrealtà che essi trasmettono. Così come conosce le loro regole, che ben difficilmente possono essere dominate da una persona o da un gruppo. Se si analizza infatti la gestione di questo caso, ci si accorge che le notizie sono state fornite, da Welby e da coloro lo sostengono, seguendo i tempi ed i ritmi richiesti dall’informazione. Alla lettera è seguito l’appello, all’appello lo sciopero della fame in segno di solidarietà, a questo la dichiarazione politica.

Tuttavia, nonostante ciò, è davvero difficile governare il circuito mediatico. Chi cerca di farlo, deve anche essere disposto, insieme, ad esserne utilizzato. Così, Welby si ritrova prigioniero non solo della sua malattia, ma dell’immagine che di essa hanno costruito i giornali. Egli finisce per venire strumentalizzato non solo dalla parte politica alla quale si appoggia, ma dai mezzi di comunicazione a cui si è rivolto. E sia per la politica che, soprattutto per i media , almeno finché sopravvive l’attenzione nei suoi confronti, è interesse che Welby, nella sua sofferenza, rimanga vivo: a prescindere dalla sua stessa volontà di decidere riguardo alla propria fine.

Se infine analizziamo gli interventi pubblicati sull’argomento soprattutto dai giornali in quest’ultimo periodo, troviamo una conferma di quanto accennavo all’inizio: uno scivolamento dalla notizia all’opinione, dall’opinione alla tesi ideologica, dalla tesi alla tentazione di mettere in opera un’azione dimostrativa. Il tutto all’interno di una grande confusione terminologica e concettuale, che solo pochi giornali ed alcune riviste specializzate hanno voluto chiarire. C’è infatti una grande differenza tra proporre l’eutanasia e richiedere la sospensione dell’accanimento terapeutico. E, purtroppo, specialmente alcuni giornali hanno inteso trasformare la vicenda umana di Welby in un’occasione per richiedere a gran voce l’eutanasia: quasi che in Italia la possibilità di porre fine, direttamente o indirettamente, alla propria vita fosse un bisogno generalizzato.

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